Chopin e il romanticismo: Palacultura incantato dalla grazia di Alessandro Deljavan

Chopin e il romanticismo: Palacultura incantato dalla grazia di Alessandro Deljavan

giovanni francio

Chopin e il romanticismo: Palacultura incantato dalla grazia di Alessandro Deljavan

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martedì 16 Febbraio 2016 - 09:11

Il pianoforte romantico in tutte le sue meravigliose sfaccettature nel concerto del pianista abruzzese dedicato ai ventiquattro studi del musicista polacco

L’esecuzione integrale dal vivo e a memoria dei ventiquattro studi di Fryderyk Chopin – dodici dell’op. 10 e dodici dell’op. 25 – in aggiunta ai tre studi senza numero d’opera composti a fini didattici per essere inseriti nella raccolta “Methode des Methodes” di Ignaz Moscheles, è un’impresa di non poco conto, non frequente nelle sale dai concerto, alla quale ci ha fatto fortunatamente assistere il pianista Alessandro Deljavan al Palacultura di Messina per la stagione concertistica dell’Accademia Filarmonica.

Le due raccolte di studi rappresentano composizioni pianistiche fra le più straordinarie di ogni tempo, ed hanno anche una enorme importanza storica per lo sviluppo della tecnica pianistica, assolutamente rivoluzionaria rispetto ai musicisti contemporanei e che getta le basi per il pianismo moderno. “Una tecnica nuova a larghissimo raggio” secondo la definizione di Rattalino, che sfrutta tutte le potenzialità del pianoforte moderno, fino ad allora in gran parte inesplorate. È sorprendente come un insieme di tali immensi capolavori possa essere nato nell’arco di sette anni (fra il 1829 ed il 1836) quando Chopin aveva fra i 19 e i 26 anni: fra tutti i musicisti Chopin è stato quello che probabilmente ha raggiunto prima la completa maturità artistica – all’età di diciannove anni, con la composizione dei primi studi dell’op.10 – e l’ha mantenuta costantemente per tutta la durata della sua breve esistenza. Con gli studi Chopin riesce nel miracolo di affrontare i più disparati problemi della tecnica pianistica, trasformando però gli “esercizi tecnici” in meravigliosi brani musicali. Vengono affrontati più o meno tutte le difficoltà di esecuzione al pianoforte, per lo più attraverso un’unica formula tecnica ripetuta in varie tonalità o gradi della scala. Il modello è chiaramente il “Clavicembalo ben temperato” di Bach, anche se Chopin non segue l’ordine matematico delle tonalità che contraddistingue l’opera del grande compositore tedesco. E così troviamo studi che affrontano il problema dell’esecuzione degli arpeggi, come ad es. il primo dell’op. 10 – il cui riferimento al primo preludio di Bach è evidentissimo – o l’ultimo dell’op. 25, un potente susseguirsi di arpeggi a due mani, dalla melodia severa e tragica. Altri sono dedicati all’agilità delle dita, in particolare delle più deboli (anulare e mignolo) – ad es. il n. 2 dell’op. 10 – altri ancora agli accordi spezzati; molti tendono comunque, nell’affrontare le varie difficoltà, ad ottenere quella leggerezza e flessibilità del polso, che Chopin considerava fondamentale. Perfino affrontando argomenti tecnici considerati da sempre “aridi”, come l’esecuzione delle terze e delle seste, il polacco riesce a creare incredibili capolavori, come il n. 6 dell’op. 25 sulle terze, uno dei prediletti da Chopin stesso. Molto belli gli studi accordi arpeggiati, come il n. 11 dell’op. 10 o il n. 1 dell’op. 25, celebrato da Schumann. Non è possibile ovviamente in questa sede l’analisi, se pur sommaria, dei ventiquattro studi, alcuni dei quali tra l’altro divenuti famosissimi, come lo sfruttatissimo n. 3 dell’op. 10, la cui melodia Chopin reputava una delle più belle da lui composte, ed al quale fu dato il titolo (poco felice) di “Tristezza” o il celeberrimo n. 12 dell’op. 10 anch’esso con un titolo “La caduta di Varsavia” (nessun titolo ovviamente è attribuibile a Chopin). Anche gli studi senza numero d’opus, se pure non paragonabili agli illustri fratelli, destano comunque elevato interesse tecnico e artistico, in particolare il primo, dedicato tecnicamente al perseguimento dell’indipendenza delle mani che eseguono contemporaneamente due ritmi diversi, ma che ci offre un tema prolungato di sublime malinconia. Come ha scritto Alfredo Casella, gli studi di Chopin costituiscono “una tappa essenziale della lunga strada maestra dell’arte pianistica, senza il superamento vittorioso della quale nessuno può sperare di potersi chiamare seriamente pianista”, nonostante ciò, ed in questo spazio lo si è in altre occasioni ribadito, è stato triste constatare come fra il pubblico, se pur numeroso, ci fossero così pochi giovani. Assistere ad una esecuzione dal vivo degli studi di Chopin rappresenta una imperdibile occasione per gli studenti di pianoforte, sembra impossibile che gli stessi non abbiano la curiosità (o non vengano spronati in tal senso dai loro insegnanti) di assistere a performance dalle quali potrebbero solo trarre enorme giovamento.

Alessandro Deljavan ha eseguito gli studi egregiamente, dimostrando padronanza assoluta della tastiera, seduto su una sedia al posto del tradizionale sgabello. L’esecuzione è stata spesso caratterizzata da frequenti “rubato”, diversi “rallentando”, molto spesso efficaci, a volte forse eccessivi, comunque sempre molto espressivi. Dopo i tre studi senza numero d’opus, il pianista ha eseguito i dodici studi dell’op.10 senza soluzione di continuità, così come i dodici studi dell’op. 25 nella seconda arte del concerto, a volte senza attendere se non una frazione di secondo fra uno studio e l’altro, (forse per evitare l’applauso?) circostanza che ad avviso di chi scrive ha un po’ nuociuto all’ascolto. A parte tali trascurabili dettagli, la performance è stata rilevante e molto gradita dal pubblico presente. Deljavan ha concesso un bis, anch’esso chopiniano, sebbene più leggero, il valzer op. 69 n.1, detto “L’adieu”, una pagina preziosa e raffinata, ricca di ornamenti, a coronamento di una serata dedicata al grande musicista polacco.

Giovanni Franciò

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