Tra ironia e serietà con “Camposanto Mon Amour”

Tra ironia e serietà con “Camposanto Mon Amour”

Laura Giacobbe

Tra ironia e serietà con “Camposanto Mon Amour”

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mercoledì 23 Marzo 2016 - 23:05

Qualche spunto per interrogarci su cosa ci aspetta, sui limiti e le potenzialità del nostro soggiorno terreno, sulla valenza dei nostri progetti, sui risultati dei nostri (buoni o cattivi) propositi.

Applausi e risate a volontà per la prima di “Camposanto mon amour”, la commedia musicale di Paride Acacia andata in scena domenica scorsa in doppio appuntamento al teatro Savio. Una piece brillante in chiave Pop Rock, che con ironia e semplicità vuole invitare il pubblico a riflettere sul Tema dei temi, quello che più tormenta l’uomo dalla notte dei tempi: l’Aldilà. Niente pretese di didattismo, il regista ci tiene a sottolinearlo, solo qualche spunto per interrogarci su cosa ci aspetta, sui limiti e le potenzialità del nostro soggiorno terreno, sulla valenza dei nostri progetti, sui risultati dei nostri (buoni o cattivi) propositi.

La scena è il cimitero comunale, dove quattro becchine (Gabriella Cacia, Elvira Ghirlanda, Milena Bartolone e Francesca Gambino), in compagnia di un simpatico fantasma (Laura Giannone), lavorano e vivono, apparentemente senza troppi disagi, ben contente anzi di tenersi alla larga dal mondo reale. Il popolo dei vivi, in visita/invasione per l’annuale commemorazione dei defunti, viene spiato dalle protagoniste, che scrutano con occhio indagatore cercando tracce di sincera umanità. Se ce ne sia rimasta o meno, non è dato sapere. Certo è innegabile che il 2 Novembre sia l’unico giorno dell’anno in cui ci si ricorda dei trapassati, e l’inconfutabile constatazione è che, non fosse per l’usanza, anche il più pio degli uomini avrebbe sempre qualcosa di più urgente da fare, che una visitina al cimitero. Il dibattito tra le protagoniste prosegue argutamente, mentre il ricordo di personaggi cittadini, ormai passati a miglior vita, si converte in spunto utile per ulteriori riflessioni. Si parla, dunque, di Giacomino Salnitro “il piagnone”, le cui lacrime di cuore, versate per tutti indistintamente, non hanno poi avuto ritorno. E ancora di Martino Zolfo, l’attore, decantato in vita da cittadini e autorità… e adesso lasciato a marcire il deposito, senza nemmeno degna sepoltura. Si punta il dito all’inconsistenza, alle belle parole e alla poca sostanza, ma di sguincio si guarda anche alla paura della morte, come al pensiero che nessun vivo, finché vive, vuole avere. Della morte non ci vogliamo preoccupare, preferiamo rimandare l’idea e rifuggire tutto quello che ce la ricorda, cimitero compreso, ed ecco che il culto dei defunti, così importante nell’antichità, oggi passa in cavalleria. Si delinea così la malattia del nostro tempo, tanto privo di ideali e certezze da indurci a confondere noi stessi, a tenerci la mente occupata di cose futili per non pensare alla fine, piuttosto che dedicarci proficuamente alla cura dell’anima. Per le nostre protagoniste, il luogo ameno da cui tutti rifuggono non è solo la fortezza dell’autenticità (nella morte, perlomeno, non possiamo più indossare maschere), ma anche il rifugio sicuro dalle aspettative sociali. Così almeno è per Saturnia, ex cantante di talento che l’insicurezza e gli ansiolitici hanno condotto al fallimento. Per riportare gli equilibri, come sempre accade a noi umani, servirà madre Natura, a ricordare con la sua potenza che qualunque umana pretesa non è che impermanenza. La pioggia improvvisa che devasta le colline vicine (che sono dichiaratamente quelle di Giampilieri, tanto per ricordarci che la scena non è solo la scena!), zittisce tutti e impone il silenzio, ristabilisce la dimensione umana, ridimensiona concetti e preconcetti e restituisce valore alla vita.

Acacia affronta l’Aldilà, con curiosità quasi speculativa, citando fonti delle più ampie e diverse. C’è una cultura mostrata ma non ostentata mentre l’elenco di culti e credenze, sacri o pagani indifferentemente, ripiovono sul pubblico a valanga, e questo, stordito e affascinato, si lascia trasportare dall’allegra baraonda. Grande maestria nella capacità del regista di scegliere e mantenere una chiave di lettura ironica, pur passando attraverso temi di grande serietà. L’effetto finale è lodevole, dal momento che si evita la pesantezza, senza però ricadere nel cattivo gusto; un equilibrio non semplice da mantenere quando si citano ricordi recenti di così triste memoria. Lo humor, ma sempre ben dosato, domina la piece, con l’atmosfera giocosa e spensieratezza tipica del musical. I virtuosismi dell’ottima band (l’autore delle musiche Massimo Pino alla chitarra, Simona Vita alla tastiera e Peppe Pullia alla Batteria), ben accompagnano le esibizioni canore delle attrici, così come le coreografie (realizzate da Sarah Lanza). Il risultato è una piece molto gradevole e d’effetto.

Laura Giacobbe

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