“God’s not Dead”, dogmatismo e libero arbitrio

“God’s not Dead”, dogmatismo e libero arbitrio

Nunzio Bombaci

“God’s not Dead”, dogmatismo e libero arbitrio

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sabato 05 Marzo 2016 - 23:07

Il film di Harold Cronk, ispirato ad una storia vera, contrappone un professore di filosofia ateo ad un giovane studente cristiano evangelico poco incline al compromesso

Proiettato nelle nostre sale dal 25 febbraio, “God’s not Dead” di Harold Cronk è liberamente tratto dall’omonimo libro dello scrittore evangelico Rice Broocks. Negli Stati Uniti è uscito due anni or sono riscuotendo un ottimo successo commerciale, e a breve ne sarà proiettato il sequel. La pellicola è ambientata in un college nordamericano e presenta lo scontro – esistenziale, non meno che dialettico – tra un professore di filosofia e un suo allievo, studente al primo anno di giurisprudenza. Il professor Jeffrey Radisson – interpretato da Kevin Sorbo – è un ateo militante che richiede agli studenti di sottoscrivere proprio una professione di ateismo per poter accedere al suo corso, scrivendo su un foglio: “Dio è morto”. Si comprende che, tra “gli autori di riferimento” del docente figurino, tra gli altri, Denis Diderot, Ludwig Feuerbach, Friedrich Nietzsche e Albert Camus. Tra le decine dei suoi studenti, soltanto il cristiano evangelico Josh Wheaton (l’attore è Shane Harper) si rifiuta di sottoscrivere tale affermazione. Il suo rifiuto suscita le ire del cattedratico. Josh sa che, se persevera nel suo atteggiamento, rischia un “suicidio accademico”: il professor Radisson diventerebbe il suo peggior nemico all’interno dell’università. Ma il giovane non è incline al compromesso. Corroborato dal sostegno morale del suo pastore, non cede alle pressioni del professore. Di rimando, questi gli affida il compito di dimostrare in modo convincente, nel corso di tre relazioni, l’esistenza di Dio ai suoi compagni di corso. Saranno costoro a valutare se sarà lui o il professore a prevalere nella quaestio disputata.

Lo spettatore è curioso di sapere a quali “prove” dell’esistenza di Dio – tra le tante addotte dai filosofi nel corso di oltre duemila anni – farà ricorso il giovane Josh. In effetti, più che attingere alla tradizione filosofica dell’Occidente, costui si avvale di argomentazioni di tipo cosmologico, per “dimostrare” che l’universo non si è creato da solo. Non trascura poi un’incursione nel campo della biologia per porre in rilievo la straordinaria accelerazione del processo evolutivo nell’ultimo milione di anni, che a suo giudizio rende obsoleto il principio natura non facit saltus. Insieme ad esso, viene “mandato in soffitta” l’evoluzionismo darwiniano che, per rendere conto della straordinaria varietà degli esseri viventi, ipotizza soltanto l’accumularsi di piccole mutazioni genetiche casuali, oggetto della selezione naturale. Il “salto” operato dalla natura postulerebbe un intervento soprannaturale. Ancora, nella terza relazione, Josh persegue una rudimentale “teodicea”, cercando di conciliare la fede in un Dio onnipotente e buono con l’immane esperienza del male. È abbastanza scontato, al riguardo, il suo ricorso al libero arbitrio donato da Dio all’uomo, e coestensivo alla possibilità di compiere il male che è propria dell’uomo stesso. Allorché Josh afferma che l’universo non si è creato da solo, il professore cerca di confutarlo citando dogmaticamente il cosmologo Stephen Hawking, per il quale l’universo si è “necessariamente” creato da solo, sol che si voglia assumere come valida la legge di gravità. Ma Josh confuta il tentativo di confutazione, ponendo in rilievo la debolezza teorica intrinseca alla perentoria affermazione di Hawking. Il giudizio sull’esito della disputa tra il docente e Josh spetta agli studenti i quali, all’unanimità, affermano che “Dio non è morto”. L’uccisione di Dio da parte del professore è un delitto im-perfetto quanto nessun altro.

Lo spettatore è indotto a chiedersi quale sia la motivazione profonda dell’ateismo di Radisson. Sulle prime, sembra che in lui una personalità spiccatamente egosintonica e narcisista, la quale rivela i suoi aspetti deteriori nel rapporto con la compagna, gli renda impossibile concepire un assoluto – foss’anche quello divino – oltre a quello costituito dall’assoluto della sua libertà. Il suo atteggiamento fondamentale sembrerebbe dunque un ateismo à la Jean-Paul Sartre, ma non è così. Come il professore rivela a Josh in una conversazione privata, in lui l’ateismo risale alla preadolescenza. A dodici anni, egli ha pregato con tutte le sue forze perché Dio guarisse la madre, ma costei è morta. Il suo “ateismo” – al riguardo, non dissimile da quello di non pochi altri intellettuali – ha dunque radici affettive prima ancora che teoretiche. E Josh, dinanzi ai suoi colleghi di corso, avrà buon gioco a dimostrare la più profonda contraddizione dell’uomo Geffrey Radisson, ovvero l’odio nei confronti di un essere di cui egli stesso nega apparentemente l’esistenza. Il film ha un finale più edificante che “lieto”. In articulo mortis il professore si converte. Sembra che la scena della conversione – come, del resto l’intero plot del film – sia stata scritta da un telepredicatore americano. In effetti, la pellicola rivela la sua matrice culturale in una certa fede evangelica nordamericana, permeata di fondamentalismo e di proselitismo. È significativo che nella scena finale si vedano migliaia di giovani i quali, accorsi al concerto di un complesso pop, lanciano mediante altrettanti sms il messaggio: “God’s not dead”.

Accanto alla vicenda principale, il film presenta altre storie, il cui legame tematico con quella è in verità alquanto tenue. Tra gli altri personaggi, menzioniamo un pastore evangelico dalla mentalità spiccatamente incline al provvidenzialismo, una giovane blogger che si rende conto del valore della propria vita solo allorché scopre di avere il cancro, nonché un uomo d’affari che, a differenza del professor Radisson, professa un “ateismo pratico”: vive come se Dio non ci fosse. Sarà la madre di costui, in uno sprazzo di lucidità concessole dalla demenza di Alzheimer, a fargli comprendere che si è recluso volontariamente in una comoda cella – l’ateismo stesso – la cui porta è comunque sempre aperta. Inoltre, il film racconta il dramma di una giovane musulmana cacciata di casa dal padre allorché costui si accorge della sua conversione al cristianesimo. Qui non si impone l’ateismo, ma la fede – anzi, una fede – e non soltanto con gli strumenti dell’ideologia ma anche con la violenza.

L’argomento del film si sarebbe prestato a una trattazione di ben altro tenore. La pellicola, tuttavia, è nel complesso apprezzabile in quanto denuncia un problema sempre più frequente all’interno di alcune università americane: la discriminazione nei confronti di studenti che professano una fede religiosa. Anche questo succede, oggi, in quell’America (che avrebbe dovuto essere) erede spirituale dei Padri Pellegrini.

Nunzio Bombaci

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