“Terra che non sa”, un paese per giovani

“Terra che non sa”, un paese per giovani

Domenico Colosi

“Terra che non sa”, un paese per giovani

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sabato 16 Gennaio 2016 - 12:52

L’incontro tra culture diverse nello spettacolo di Sarah Lanza, secondo atto del “Progetto Parola Pasolini” a cura della compagnia Daf – Teatro dell’Esatta Fantasia

Cronache della famiglia Banks, secondo atto. Il palco diviso simmetricamente da una clessidra, due silenziosi narratori-demiurghi ad ispirare le due scene contrapposte: il risveglio felice della famigliola borghese, le sevizie subite dai migranti nei campi di concentramento libici. Inizia ad agitarsi lo spirito di ribellione: i figli del benessere insoddisfatti dalle costrizioni della morale, i profughi pronti a seguire il proprio destino di rifugiati al di là del mare. Urla, paradossi, sovrapposizioni e ribaltamenti fino ad un finale idilliaco nella penombra del palcoscenico. Finti moralismi e meditate pietà televisive messe all’angolo, all’orizzonte un paese per giovani.

Le inquietudini, il soffocamento e il senso di repressione della morale borghese, le sofferenze della fuga per approdare alla sensuale libertà della danza: “Terra che non sa” spezza e ricompone attraverso i canoni del teatro-danza orgogli e fragilità di due mondi contrapposti fino a farli giungere alla soavità del reciproco riconoscimento, con i pregiudizi sconfitti e relegati in fondo al palco in una posa riecheggiante la “Cacciata dal Paradiso” di Masaccio. Facile incorrere in didascalismi e banalità quando, prendendo le mosse da un’opera compiuta come quel “Teorema” di Pasolini ispiratore dell’intero progetto già inaugurato con il primo lavoro “Vento da Sud Est”, si decide di varare un ponte immaginario tra il passato e le complessità del presente: Sarah Lanza aggira gli ostacoli con leggerezza, evitando con attenzione la dicotomia bene-male per proiettarsi su una visione quasi documentaristica dei fatti in un crescendo di lirismo che culmina in un finale forse eccessivamente consolatorio. In mezzo, ben amalgamate con i motivi che carsicamente riemergono nel corso dello spettacolo, le citazioni da “Accattone” o le cristologie della “Ricotta” e del “Vangelo secondo Matteo” ad esaltare un discorso solo apparentemente in continuità con il primo atto firmato da Angelo Campolo: superiore, in questo caso, la prova dei giovani attori sulla scena, apparsi in ogni frangente perfettamente aderenti alla parte (da sottolineare in questo senso le interpretazioni di Patrizia Ajello e del narratore Michele Falica) in una gestualità sempre sapientemente controllata. Capitolo a parte per la colonna sonora, scelta accuratamente tra le preferenze dello stesso Pasolini con alcune incursioni moderne: dal Requiem di Mozart per il risveglio della famiglia borghese (con applauso a scena aperta da parte del pubblico della Laudamo) a Bach, passando attraverso canti africani e l’irresistibile “Minor Swing” di Django Reinhardt, perfetta nel valorizzare le movenze splastick nella scena delle stereotipate attività quotidiane dei Banks. Conclusione riservata a Francesco De Gregori con “L’infinito”, scelta probabilmente stridente se compiuta dopo aver regalato all’intero contesto un opportuno senso di straniamento con le evocative composizioni di Brian Eno e Arvo Part.

Il grigio e il rosso a dividere i due gruppi, monocromie pronte a dar vita alle necessarie contaminazioni per aprire un nuovo fertile dialogo tra culture. Ribaltare, dunque, in ottimismo quella che per Pasolini era solo rassegnazione per un mondo proteso verso la cancellazione di ogni identità: scelta personale e coraggiosa quella di Sarah Lanza, forse imposta dallo spirito dei tempi; nessun tradimento, ma il semplice aggiornamento di un tema che accompagnerà ancora per lungo tempo le valutazioni politiche dell’Occidente.

Domenico Colosi

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