Daniele Gonciaruk: “Un presidio shakespeariano a Messina”

Daniele Gonciaruk: “Un presidio shakespeariano a Messina”

Giovanna Panto

Daniele Gonciaruk: “Un presidio shakespeariano a Messina”

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mercoledì 09 Agosto 2017 - 06:02

Approfondita intervista all’attore e regista messinese, reduce dal successo di pubblico del Piccolo Festival Shakespeariano

Dopo le fatiche ed il successo di pubblico della prima edizione del Piccolo Festival Shakespeariano, incontriamo l’attore e regista Daniele Gonciaruk, messinese classe 1971, per invitarlo a parlare del suo progetto teatrale. Iniziato al teatro fin dall’adolescenza dal maestro messinese Totò D’Urso, si è diplomato nel 1994 presso l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma. Dopo varie esperienze teatrali ed in fiction televisive come La Piovra, Il Capo dei Capi, Squadra Antimafia ed altre, nel 2011 fonda la Dagoruk Produzioni e successivamente l’associazione culturale “Officine Dagoruk” con la quale crea nel 2014, la Scuola Sociale di Teatro, ispirata al desiderio di unire professionisti ed allievi, persone giovani e meno giovani, accomunati dal desiderio di impegnarsi in questa straordinaria forma di espressione artistica. Poi l’ispirazione per Shakespeare Horror Story, spettacolo andato in scena presso il Forte San Salvatore di Messina, realizzato nella sua prima versione nel 2016 e riproposto in un diverso allestimento ma nella stessa ambientazione quest’anno, nell’ambito di un progetto unitario a cui ha dato il nome di Piccolo Festival Shakespeariano che ha compreso anche la messa in scena di Sogno di una notte di mezza estate al Monte di Pietà.

Daniele, l’anno scorso tre repliche di Shakespeare Horror Story; quest’anno ben sei repliche e tre del Sogno all’interno di un titolo ambizioso, quello di Piccolo Festival, che sembra avere infastidito qualcuno. Sembra un crescendo, le prime prove di un progetto la cui realizzazione è ancora in itinere. Cosa ci puoi rivelare di ciò che desideri creare?

L’anno scorso in realtà abbiamo fatto ben nove repliche di Horror Story, in nove giorni, tutte sold-out. Lo spettacolo era molto più lungo e durava quasi due ore e venti. Quest’anno ho sentito la necessità di crearne un’edizione più fruibile per il pubblico: avevo la possibilità di lavorare al Forte solo per tre giorni e quindi c’era l’esigenza anche di allestire uno spettacolo più breve. Inoltre, volevo dare più spazio ai ragazzi della Scuola. Per raggiungere questo obiettivo ho eliminato quasi del tutto quello che lo scorso anno era il filo conduttore tra le scene delle varie tragedie, cioè Tito Andronico, lasciandone solo la sequenza finale che ben si addice al tema del tradimento che quest’anno era l’elemento dominante di Horror Story; ne ho così ottenuto uno spettacolo più breve dandoci la possibilità di fare due repliche al giorno e quindi di accogliere ugualmente un buon numero di spettatori. Ed anche quest’anno per fortuna, abbiamo avuto il tutto esaurito. Sogno di una notte di mezza estate mi sembrava il miglior modo per inaugurare questo nuovo progetto, cioè quello di avviare qui a Messina un Piccolo Festival Shakespeariano. In questo titolo non sento nulla di pretenzioso, e non so se a qualcuno davvero possa avere dato fastidio che io lo abbia chiamato; anzi al contrario, ho voluto tenere una sorta di profilo basso nella scelta del nome. Gli spettacoli del Festival, di anno in anno, vedranno impegnati sia allievi attori, alcuni dei quali alla loro prima esperienza teatrale, che giovani o meno giovani professionisti del settore, siciliani e non. Fra gli interpreti quindi ci saranno sempre, insieme, allievi e professionisti. Un esperimento che anche in passato ha dato ottimi risultati e abbattuto i costi, cosa che di questi tempi purtroppo, non bisogna sottovalutare. Il festival è Piccolo anche perché, almeno in questa prima fase, è contenuto nella durata e nelle dimensioni: anche nei prossimi anni non sarà una rassegna con tanti titoli, ma con due massimo tre produzioni l’anno, che potranno essere arricchite eventualmente, con qualche evento collaterale. Mi piacerebbe creare a Messina, una casa e un laboratorio stabile su Shakespeare, che rimane sempre il più grande drammaturgo di tutti i tempi. Non credo ci sia nulla di presuntuoso nel desiderare questo e penso sia interessante dare la possibilità al pubblico di anno per anno, di approfondire la conoscenza di opere anche meno frequentate del Bardo, come Tito Andronico appunto o altre. Come dice Harold Bloom, un famoso critico letterario americano, Shakespeare è in qualche modo colui che ha “inventato” l’uomo descrivendone le dinamiche psicologiche ancora prima della nascita della psicoanalisi di Freud.

Non è un rischio quello di unire nello stesso gruppo persone di diverse età e diversa motivazione al teatro? Non corri il rischio di realizzare non un vero spettacolo, degno di positiva attenzione da parte della critica specializzata, bensì soltanto un dignitoso saggio accademico di fine anno?

Sì, è rischioso ma è questa la strada da percorrere. Allestire due produzioni che richiedono tanti attori non è semplice, soprattutto con scarse risorse economiche. E non so se e quando qualcuno si accorgerà di quanto importante possa essere questo lavoro di formazione sia di allievi che di pubblico, decidendosi appunto di sostenerci economicamente. Ma al di là di questo trovo bella e stimolante questa dimensione in cui giovani e meno giovani, uniti dal talento e dalla passione, si apprestano al teatro e danno vita a queste opere. Certamente bisognerà fare, già dal prossimo anno, una scrematura, una selezione, ed anche la scuola-laboratorio che ho porta avanti in questi anni dovrà prendere un’altra forma. Mi piacerebbe creare un “presidio shakespeariano”, un laboratorio stabile in cui preparare, o meglio “allenare” allievi e attori alla drammaturgia shakespeariana. Recitare non è soltanto imparare a dire bene un battuta ma è anche capire cosa si sta facendo, su cosa si sta lavorando e portando in scena. Vorrei lavorare su questa strada. Messina poi, come altre città italiane è presente nelle opere di Shakespeare e mi entusiasma l’idea che anche la nostra piccola città diventi casa di questo grande drammaturgo. A Roma ad esempio l’esperienza del Globe Theatre è straordinaria e non nascondo l’intenzione futura di creare un ponte con quella realtà.

Il laboratorio shakespeariano, o presidio come lo chiami, sarà dunque una realtà che ospiterà soltanto giovani talenti o si aprirà anche ad altri soggetti di varie età ed estrazione come fatto finora?

Mi piacerebbe lavorare soprattutto con giovani fortemente motivati, perché è importante dare spazio ai talenti e soprattutto a coloro che possono pensare al teatro come ad un futuro mestiere, sebbene sia oggi in Italia, un lavoro decisamente inflazionato e da intraprendere solo se veramente appassionati. Non escludo però la possibilità di integrare, come è successo anche in questi anni, talenti over 50 che si apprestano al Teatro come è accaduto, in età avanzata. Per questo sto cercando di pensare a due percorsi paralleli, uno dedicato ai giovani con ambizioni professionali e l’altro come proseguimento dell’esperienza della Scuola Sociale di Teatro da cui attingere qualche elemento da inserire in queste eventuali nuove produzioni. Due percorsi paralleli che si possono intersecare, tenendo presente che è importante in futuro fare una scrematura: è una naturale esigenza, ed una richiesta che sicuramente arriverebbe da parte del pubblico e critica. Il teatro rimane sempre un esperienza da fare in modo serio e approfondito ed è giusto valorizzare chi ha più capacità e tempo a disposizione, e questo perché le ambizioni dei giovani non vengano sacrificate ed evitare di sottoporre a pressioni eccessive chi invece vuole o può dedicare al teatro un impegno meno centrale.

Parlando dei tuoi spettacoli, o saggi, come qualcuno ha definito le tue rappresentazioni, è stata richiamata l’attenzione all’influenza che i tuoi allievi avrebbero avuto dalla commedia dell’arte, è corretto?

Il valore di un saggio non va sminuito: in Accademia (la Silvio D’Amico, ndr) o nelle altri grandi scuole, i saggi di fine anno, vengono preparati da grandi maestri come Gabriele Lavia, Michele Placido, Massimo Foschi o, come nel recente passato, da Ronconi; un saggio di fine anno è uno spettacolo degno di tale nome, è solo fatto da attori non ancora professionisti e può essere bello o brutto, più o meno riuscito, come qualsiasi altro spettacolo. E’ chiaro che la Scuola Sociale di Teatro non è l’Accademia; è una realtà che ospita elementi che possono avere più o meno talento, che hanno età diverse, che possono vivere il teatro con motivazioni ed approcci diversi; ed è per questo che penso alla necessità dei due percorsi paralleli e di una selezione, perché la produzione dei “saggi spettacolo” di fine anno possa sempre più salire di livello. La parola “saggio” quindi, non è una brutta parola! E’ stato scritto è vero, in una recensione al Sogno, un riferimento alla commedia dell’arte: altra cosa nobilissima da cui un attore, soprattutto un allievo attore, non può prescindere. Perciò, se qualcuno ha visto che i miei allievi hanno attinto alla commedia dell’arte non può che farmi piacere perché ha fatto parte del loro percorso formativo: la commedia dell’arte inoltre offre ad un attore qualità e possibilità espressive peculiari come far funzionare il corpo, ad esempio, o come gestire il movimento; è una fonte di apprendimento straordinaria. E’ stato anche scritto che i ragazzi avevano un impostazione “accademica”. Il loro maestro ha fatto l’Accademia è la cosa mi sembra inevitabile ma soprattutto indispensabile per un giovane attore perché negli ultimi anni tra laboratori e scuole varie condotte spesso da “non attori” o maestri improvvisati, c’è una dilagante deriva alla recitazione scialla e naturalistica, o più banalmente emotiva. Di peggio c’è solo la peste a mio parere. E’ come voler far diventare cantante lirico qualcuno facendolo esercitare solo sulle canzoncine sanremesi tutte anima e core (con tutto il rispetto che ho al riguardo) o far diventare pittore qualcuno a cui non si è insegnato a disegnare bene una mano, il volto e tutti i bei particolari del corpo umano. Si chiamano basi, da cui è imprescindibile partire.

Un altro elemento di rischio nell’allestimento del Piccolo Festival è stato quello di scegliere non palcoscenici teatrali ma luoghi monumentali, che mi sembrano più difficili da gestire; cosa ti ha indotto a correrlo?

Il teatro come luogo classico di rappresentazione è meraviglioso, magico, ma è anche una scatola vuota e pericolosa: occorre essere grandi attori per riempire uno spazio potenzialmente inesistente, entropico. Per poter creare un mondo sopra un palcoscenico di un teatro occorre che l’attore sia tanto bravo da riuscire a creare delle immagini anche solo con le parole; altrimenti l’attore scompare. Succede perfino a molti professionisti di sparire dentro quello straordinario spazio magico. Il teatro è più forte. Per un allievo attore può essere uno stimolo più forte quello di interagire in spazi non convenzionali. A me piace, nel mio modo di fare teatro, creare spazi non convenzionali. Anche nei miei spettacoli più tradizionali cerco sempre di sfondare la quarta parete, portando l’attore incontro o contro lo spettatore, proprio per cercare di creare una simbiosi tra lo spettacolo ed il pubblico; e questi siti monumentali, il Forte San Salvatore ed il Monte di Pietà, si sono prestati bene a questo scopo, consentendo un contatto diretto, ravvicinato, tra attore e spettatore. Inoltre, questi “saggi-spettacolo” mi offrono la possibilità di sperimentare delle modalità nuove che mi permettono di mettere a fuoco determinati luoghi dell’anima e modalità espressive che nel tempo mi serviranno a creare una mia dialettica precisa. Sento che è la mia strada e sto imparando insieme ai miei allievi.

Quali sono le difficoltà che incontra una giovane scuola di teatro che vuole fare formazione a Messina?

Le difficoltà sono enormi. La nostra scuola vive già da cinque anni a Messina e la mia idea è sempre stata quella di consentirne l’accesso anche a chi non può permettersi di spendere grosse cifre per la formazione o il mantenimento in un’altra città. Certamente, questa bella intenzione è un rischio perché occorre fare i conti con le spese di gestione e di manutenzione del laboratorio. La scuola necessita, prima o poi, di un aiuto o di un contributo, per poter mantenere queste peculiarità, non può vivere soltanto per la volontà di un privato. Sarebbe stato bello che questa scuola, che negli anni ha prodotto cose, spero interessanti, fosse riuscita ad agganciare l’interesse di qualcuno che potesse aiutarla a farla crescere. Penso anche all’Ente Teatro di Messina, che non è mai stato veramente presente all’interno di queste produzioni e al mio percorso di formazione e professionale. Ritengo questa una cosa davvero anomala. Un Ente teatrale può avere la forza economica per sostenere, anche con il giusto necessario, un percorso di formazione e dare senso e spessore a quest’esperienza.

Ma un prezzo più elevato può essere una barriera all’ingresso e chi non è fortemente motivato o sorretto da una speranza di futuro professionale potrebbe rinunciare in partenza…

Ed infatti è quello che non vorrei, perché lo spirito con cui è nata la Scuola Sociale di Teatro è quello di potersi rendere disponibile anche a chi non ha grandi possibilità economiche; a maggior ragione un supporto da parte di una istituzione è di vitale importanza.

In pratica, ci dici che l’arte non può esistere senza una volontà politica che la sostenga?

In verità in questi anni abbiamo dimostrato che è possibile; siamo andati avanti senza alcun appoggio o sostegno sia economico che politico, ma la politica dovrebbe pre-occuparsi anche di questo. Con l’attuale assessore alla cultura di Messina, Federico Alagna, si è aperto un dialogo molto sensibile e proficuo che spero possa portare buoni frutti futuri. Sostenere esperienze sociali ed artistiche come quelle per la formazione teatrale lo ritengo di vitale importanza. Poi, se ci pensi, il teatro è una meravigliosa forma di educazione: ti costringe, distraendoti, a stare fermo, seduto. E’ una forma di disciplina che va coltivata perché abitua all’ascolto e ne arricchisce la qualità, favorendo la concentrazione e l’attenzione, diversamente da ciò che accade allo stadio ad esempio, dove si urla e si sbraita, ma senza nulla togliere al valore rappresentato dalla passione per lo sport. Il teatro dovrebbe essere forse la più importante fra le arti, insieme alla musica, come forma di educazione, dovrebbe essere insegnato a scuola. Non si può insegnare religione, italiano o storia prescindendo dal teatro; penso sia trovo una cosa assurda. Non si può non trattare la materia del teatro, la storia del teatro è storia dell’uomo, come ci insegnano appunto Shakespeare e tutti gli autori classici. La politica deve occuparsi del teatro e dovrebbe farlo in modo genuino, senza disparità o preferenze, cercando di sostenere almeno le istanze migliori senza favoritismi. Più meritocrazia aiuterebbe tutti a crescere e creare una coscienza civile che abbiamo perso.

Mi sembra molto difficile fare un discorso meritocratico nel teatro; ed anche realizzare una equa distribuzione in un periodo in cui le risorse sono così poche. Si corre il rischio di ritenere più meritevoli soltanto quelle iniziative più premiate dal pubblico e non necessariamente sono quelle di livello più elevato; le esigenze di botteghino potrebbero essere legate ad istanze meno colte, che ne pensi?

Io sono stato a Siracusa tre volte quest’anno, per vedere I Sette Contro Tebe, Le Fenicie e Le Rane. Il Teatro Antico, per tutte e tre le volte, era pieno; e moltissimi spettatori erano giovani. Evidentemente il desiderio c’è; la cultura non è necessariamente in controtendenza popolare, bisogna avere il coraggio di offrire un buon teatro e le idee giuste. La qualità il pubblico la percepisce, o quanto meno può apprezzarne lo sforzo. Nel caso del nostro Piccolo Festival, l’impegno, la gioia, la volontà di fare del nostro meglio credo sia stata tangibile e condivisa pur considerando tutti i limiti dell’operazione che vorrei far notare ha preso vita a budget zero. Infine, esiste il teatro fatto bene ed esiste il teatro fatto male; quando il teatro è fatto bene, con un impegno serio alla base, al pubblico arriva. Il teatro ha perso tanto pubblico e questo è una verità tangibile, una parte pubblico va riconquistata mentre un altra va ancora formata. Quando in questi giorni, qualcuno mi ferma e mi dice “mia figlia è venuta a vedere Horror Story, si è appassionata ed ha deciso di venire a vedere anche il Sogno” oppure “sono venuto a vedere due volte lo spettacolo”, questo non solo mi rende felice ma anche consapevole che la strada da seguire è quella che, anche se con fatica, stiamo percorrendo.

Tu lavori in teatro ma hai lavorato anche in televisione. Qual è la differenza di coinvolgimento tra teatro e cinema?

Totale, sono due approcci completamente diversi… Nel cinema si lavora a pezzettini, non c’è il coinvolgimento del pubblico, c’è l’emozione di stare davanti ad una camera da presa ma ti puoi permettere di sbagliare anche cento volte, di fare un ciak tante volte finché non realizzi quello giusto. Se sbagli in teatro, non c’è un modo per cancellare l’errore: hai sbagliato e devi andare avanti. Anche il tipo di interpretazione è diverso. In teatro devi avere delle qualità che nel cinema non sono richieste: bisogna essere più consapevoli della struttura della propria voce, del proprio corpo, occorre lavorare sulla propria fisicità, sul movimento. Nel teatro, l’attore diventa uno strumento musicale. Invece nel cinema o in televisione si può essere più “scialli”, più naturali. Chiunque può diventare un attore di cinema o televisione, basta avere la faccia e la fisicità giusta per diventare quel personaggio. In teatro, per interpretare un personaggio occorre appropriarsi delle sue qualità e suonarle attraverso il proprio corpo.

Cosa suggeriresti ai tuoi allievi, dilettanti o aspiranti professionisti: di avvicinarsi al teatro sperando di avvicinarsi al cinema o alla televisione o di rimanere nel teatro?

Beh, per diventare pittore occorre imparare a disegnare, credo di averlo già detto, iniziando a disegnare le forme geometriche, le forme anatomiche… Il teatro è la base da cui si parte per imparare tutti gli strumenti espressivi e, d’altronde, molti grandi attori di cinema sono attori teatrali. Sono pochi i grandi attori che non vengono dalle scuole di teatro. Il cinema è sicuramente un’industria più conveniente perché fai meno e guadagni di più; difficile diventare ricchi o anche solo benestanti con il teatro. Pochissimi ci sono riusciti. Carmelo Bene, Edoardo De Filippo e pochissimi altri.

Se volessi individuare un elemento che caratterizza la tua Scuola Sociale di Teatro, che la differenzia dalle altre scuole di Messina, quale indicheresti?

No, questo non lo so. Non conosco tutti i laboratori di Messina, ma posso dire quello che faccio io: vengo da una formazione accademica; ho avuto l’occasione di lavorare con grandi maestri come Mario Ferrero, un regista importante degli anni ‘60/’70 che ha diretto molti sceneggiati televisivi e che negli anni è diventato un caposaldo dell’Accademia Silvio D’Amico dove mi sono formato e dove ho incontrato altri maestri come Ronconi, Marisa Fabbri, Hal Yamanouchi e il mio direttore di Accademia, Luigi Maria Musati che era ed è un grande maestro di storia del teatro oltre che regista. Un uomo di grande spessore umano e culturale. Poi nella professione ho conosciuto tanti straordinari attori e registi da Lavia a Branciaroli, da Turi Ferro ad Armando Pugliese e molti altri. Ho imparato qualcosa da tutti loro e porto con me questo bagaglio che cerco a poco a poco di trasmettere ai miei allievi, fin dove arriva la loro possibilità di accogliere. Agisco con ognuno di loro in maniera diversa perché ognuno di loro ha un talento diverso, un modo diverso di percepire le cose. Porto nella Scuola quella che è la mia esperienza in teatro e quello che io sono come persona.

Giovanna Pantò

Un commento

  1. QUALCUNO A MESSINA NON HA SCRITTO CHE E’ NATO A MESSINA? HA SCOMODATO PERFINO LA REGINA ELISABETTA CON UNA SUA MAESTA’ LETTERA PERSONALE?

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