Figli di un Dio minore. In principio era il silenzio

Figli di un Dio minore. In principio era il silenzio

Domenico Colosi

Figli di un Dio minore. In principio era il silenzio

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mercoledì 01 Marzo 2017 - 11:08

Oltre le barriere, senza moralismi: la lotta per l’uguaglianza in un Istituto per sordi come metafora della lotta di tutte le minoranze per il riconoscimento dei propri diritti

USA, 1980. Il logopedista James Leeds vive una storia d’amore con Sarah Norman, addetta alle pulizie non udente dell’Istituto specializzato che la ospita. Traumi familiari in serie alle spalle dei due protagonisti, amanti ogni oltre barriera di un’enclave animata da screzi, ottuse sensibilità e piccole meschinerie. Dopo le nozze le difficoltà si acuiscono, le continue traduzioni di James virano nella tensione di una lingua morta. Minoranze in lotta per uno status di completa uguaglianza: diventa necessario serrare le fila di una purezza primigenia contro un mondo normalizzatore. “Domani nella battaglia pensa a me”.

Progetto a lungo meditato dal regista Marco Mattolini, Figli di un Dio minore di Mark Medoff torna in Italia dopo la fugace apparizione del 1980 al Festival dei Due Mondi di Spoleto: in mezzo il fortunato film di Randa Haines del 1986 con William Hurt e l’attrice premio Oscar Marlee Matlin. Parabole edificanti, lirismi vari e una tensione per il sociale sul palco del Teatro Vittorio Emanuele: tra documento e caricatura, i cammini comuni di tutte i gruppi minoritari per il riconoscimento dei propri diritti, vittime designate della conventio ad excludendum di una maggioranza sorda al richiamo dei più deboli. Un’atipica storia d’amore nella prima parte, sviluppata secondo i canoni consueti dell’american dream, poi la svolta nel secondo atto con rimostranze e provocazioni che rivelano tutti gli intenti sociali dell’opera. Normali le tinte sentimentali in una storia controllata con sapienza da Mattolini ed esaltata dalle funzionali scene di Andrea Stanisci, valida base per lo sviluppo di un ritmo dalle cadenze cinematografiche che attenua la sensazione di dejà vu evocata da alcuni passaggi cruciali.

Eroiche le interpretazioni, dalla magnetica prova di Giorgio Lupano (protagonista e traduttore degli attori sordi in scena) alla titanica volontà di Rita Mazza, cipiglio battagliero e movenze neorealistiche. Una menzione a parte per la giovane Deborah Donadio, amabile disturbatrice in uno spettacolo che non perde mai la determinazione tutta americana di addolcire il dramma con il buonumore. Forse esagerando, in una scrittura che talvolta risente del tempo trascorso: ingenuità concesse se terreno di un nuovo dibattito o, quantomeno, campagna di sensibilizzazione che rinnovi il tema dell’inclusione. Oltre il politicamente corretto, senza biechi moralismi.

Domenico Colosi

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