Macbeth. Regno a venire

Macbeth. Regno a venire

Domenico Colosi

Macbeth. Regno a venire

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mercoledì 01 Febbraio 2017 - 13:49

Negli afflitti sussurri di Branciaroli la celebrazione del testo scespiriano, una glorificazione terrena della crisi che il Bardo continua ad evocare

I fantasmi della virilità messi a rischio dalla perfida sorte, matrigna dei destini umani. Nessuna gratitudine per l’eroismo mostrato in battaglia, l’onesto cursus honorum di Macbeth si infrange sugli abbagli del buon re Duncan, vittima necessaria di quel desiderio che da legittima aspirazione diventa infernale apologia del potere. Dalle parole di streghe barbute alle diaboliche invocazioni della moglie, è il femminino a travolgere l’inquieto generale nella spirale luttuosa che insudicia di sangue il cammino verso il trono di Scozia. Popolata da dilemmi morali, morbose fantasticherie e fatali tormenti, la psiche di Macbeth non è più in grado di interpretare la banale realtà: una sterilità complessa, madre di atti senza futuro.

Realizzato per il 400esimo anniversario della morte di William Shakespeare, il Macbeth di Franco Branciaroli visto al Teatro Vittorio Emanuele designa nella parola la pietra su cui costruire un’opera essenziale, scarnificata, sciolta da orpelli e abusate pirotecnie. Un semplice sistema di piani rialzati, aperture frontali e laterali, qualche gradino e piccoli schermi per muovere la vicenda in ogni luogo, nella consapevolezza di esporre al pubblico ludibrio solo la malattia del potere, demoniaco sabba che tutto contempla al suo interno: sacrifici, ambizioni, volontà, audacia e sopraffazione. Deborda Branciaroli con il suo consueto stile fluttuante, espressione di un ritmo sempre governato con maestria, dagli spasimi di dolore alle feroci avanzate, dal terrore al rimpianto. Un faro nell’oscura scena allestita da Margherita Palli, una prova monumentale che trova degno contrappunto nelle luci di Gigi Saccomandi, ferite aperte da cui sgorgano alternativamente sangue e fiele, bagliori di speranza e ombre di sventura. Sentimenti ambivalenti che non appartengono ad una Lady Macbeth (Valentina Violo) consacrata al Male, solo in limine vitae scossa da un singulto di debole umanità. Una polarizzazione apprezzabile in un ritratto che si pone come esasperazione dei sessi, cupa riflessione su una differenza di genere resa liquida solo dalla comune propensione alla brama, al banchetto dell’ingiustizia e del sopruso. Poco memorabili le altre interpretazioni, dal lacrimoso Macduff di Fulvio Pepe al bonario re Duncan di Giovanni Battista Storti: unica eccezione nella maestosa fisicità del Banquo di Enzo Curcurù, prodigiosa incarnazione di uno strazio che diviene concreta persecuzione.

Esaltare la complessità eliminando il superfluo. Negli afflitti sussurri di Branciaroli la celebrazione del testo scespiriano (traduzione di Agostino Lombardo), una glorificazione terrena della crisi che il Bardo continua ad evocare: lo scintillante ideale tradotto in lugubre realtà, il principio sempre corrotto dalle circostanze. “La vita non è che un’ombra / che cammina, un povero attore / che si pavoneggia e si agita per la sua ora / sulla scena e del quale poi / non si ode più nulla: è una storia / raccontata da un idiota, piena di rumore / e furia, che non significa nulla”.

Domenico Colosi

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