Miseria&Nobiltà. Arabesco pop

Miseria&Nobiltà. Arabesco pop

Domenico Colosi

Miseria&Nobiltà. Arabesco pop

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sabato 18 Febbraio 2017 - 11:47

Un gioco gaddiano di libere associazioni nell’adattamento di Michele Sinisi al celebre testo di Eduardo Scarpetta

“In Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco”. Endemica e intramontabile, la calcolata complessità è da sempre il terreno privilegiato in cui muovere genio e tradizione lungo lo Stivale. Se ne parlò anche per la recente riforma costituzionale, quando la riscrittura apparve un tentativo di tradimento, di inutile artificiosità là dove insisteva dal dopoguerra una genuina (?) purezza figlia di nobili ideali. Sconfessare le parole di Ennio Flaiano è compito dei giovani: forse prematuramente senescenti tanti di quelli che già occupano poltrone, mediocri conservatori di destra e sinistra.

Quanto il teatro sia spia di un disagio politico è oramai domanda ontologica il cui ventaglio di risposte balocca l’immaginario di molti. Nell’era dell’infotainment anche le istanze sociali scivolano leggiadre nel divertissement come, di converso, semplici boutade aprono spesso la breccia alle riflessioni degli analisti. La premessa prima del problema: sul tavolo un testo comico del 1888, la celeberrima trasposizione cinematografica del 1954, i naturali corredi genetici che in essi insistono (il ritmo di Eduardo Scarpetta, le interpretazioni di Totò, Enzo Turco, Sophia Loren). Da questi si discende alla nuova versione di Miseria&Nobiltà, capolavoro popolare perché solo di miseria tratta, e una finta noblesse vi appare ritratta in forma di parodia. Uno spartito praticamente perfetto che il pubblico conosce a menadito tra repliche televisive, filodrammatiche e battute celebri: Napoli dentro e fuori il palcoscenico a permeare ogni battuta, a caratterizzare personaggi, motivazioni, dinamiche. Michele Sinisi, regista del nuovo adattamento, scompone il giocattolo per ricrearlo in un laborioso work in progress sotto gli occhi dello spettatore: il palco nudo, un litigio tra donne, dialetti e accenti nuovi per un’opera che lentamente prova ad assumere le sembianze del modello. I difetti acustici del Teatro Vittorio Emanuele mortificano le prime scene che, invero, attraggono poco e annoiano sovente; poi le prime svolte con inserti apocrifi (la lettera di Benigni e Troisi in Non ci resta che piangere o quella dello stesso Totò a proposito della “moria delle vacche”), accelerazioni, riconoscimenti. Una volta raddoppiata la velocità, le imperfezioni restano sospese in una corsa sfrenata verso la battuta, il gioco appunto: ne esce rafforzata la scelta di un plurilinguismo gaddiano, si riaccende il sacro fuoco del teatro delle maschere. Il brio, dunque, che deborda qua e là grazie ad un esemplare Ciro Masella, direttore d’orchestra di un gruppo d’attori (Diletta Acquaviva, Stefano Braschi, Gianni D’Addario, Gianluca Delle Fontane, Giulia Eugeni, Francesca, Gabucci, Stefano Medri, Giuditta Mingucci e Donato Paternoster) sempre spinto verso quell’eccesso – cafonal, direbbe qualcuno – che dispiega l’arabesco di cui sopra: onnicomprensivo, famelico, figlio di una calcolata improvvisazione.

Sinisi sceglie per sé il delizioso ruolo del piccolo Peppiniello, personaggio che trasuda l’ingenua furbizia dell’intera operazione. Il tiepido applauso del pubblico suggerirebbe un’accusa di tradimento, o quantomeno d’aggressione a quell’immaginario che è lo stesso teatro della memoria: la destrutturazione fallisce il rendiconto proprio nella somma delle parti, il resto è solo alta infedeltà. Innocente come la verità, nient’altro che la verità.

Domenico Colosi

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