La vita ferma. Orientarsi con le stelle

La vita ferma. Orientarsi con le stelle

Domenico Colosi

La vita ferma. Orientarsi con le stelle

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sabato 26 Novembre 2016 - 09:40

Il dialogo tra i vivi e i morti nell’intenso dramma di Lucia Calamaro sorretto dalle brillanti interpretazioni di Simona Senzacqua, Alice Redini e Riccardo Goretti

La luce e il lutto. Un bianco candore invade la scena: il dolore fisico della perdita, paralisi dell’anima, è soppiantato dal lungo momento dell’elaborazione. La ricostruzione di una fisionomia aderente alla realtà, rapide epifanie attraverso pochi oggetti rinvenuti nelle consuete dinamiche di un trasloco: un portalampada, vestiti, alcuni libri creduti smarriti. Il dialogo incessante tra Riccardo, storico che parla per citazioni, e Simona, compagna di un tempo relegata nello spazio bianco tra memoria e oltretomba. Tutto viene ricostruito per scarti rapidissimi: la malattia, i turbamenti della figlia Alice, la filosofia spicciola che si fa consolazione, l’apatia di medici e amici. Piani temporali si sovrappongono senza soluzione di continuità, fino alla necessaria perdita di memoria, al conforto dell’oblio. Il punto di contatto tra i vivi e i morti in una serena indifferenza.

Procede per accumulo la drammaturga e regista Lucia Calamaro nel suo La vita ferma, frastagliato arcipelago della memoria che tutto contempla al suo interno, dalla metafisica che riecheggia il Tarkovskij di Solaris alle tinte accese da claustrofobico melò, dunque freddure, piccole patologie del quotidiano, piste, suggerimenti, citazioni. Tre atti in cui la narrazione procede con scarti veloci tra passato e presente: un fantasma, quello di Simona (l’abbagliante Simona Senzacqua) che non intende abbandonare il palcoscenico della vita, incurante di quanto sia ingombrante la sua presenza-assenza nel momento riservato alla tiepida nostalgia. Come nei più celebri affreschi modernisti, da Joyce a Virginia Woolf, i riferimenti colti (in questo caso l’insistenza sul filosofo francese Paul Ricoeur) si affastellano con momenti grevi, battute, preghiere, tic di causa incerta. Tutto può trovare spazio quando è il caso di ricostruire un’intera esistenza umana, ancor di più nel momento di riprodurre un tragico tramonto: “Dimenticare è uno scandalo”, frase che scolpisce i temi dell’intero dramma sin dal primo atto, già narrazione autocompiuta. L’approdo, nel terzo, non può essere che il ricordo tradito, un marito che dimentica il colore degli occhi della moglie, rima baciata a tutte le citazioni sbagliate: come nel classico di Edgar Allan Poe, l’oggetto di una spasmodica ricerca resta sconosciuto pur nella sua abbacinante evidenza. Se Riccardo (il convincente Riccardo Goretti) resta dunque una guida poco affidabile nei tornanti di un viaggio costantemente a ritroso, alla figlia (Alice Redini) resta il compito di trasfigurare ogni immagine attraverso la propria percezione, divenendo erede, come tutti, di una storia inesatta.

Grandi apprezzamenti al Teatro Vittorio Emanuele da un pubblico reso sparuto dalle consuete ambiguità di ogni allerta meteo: le tre ore di continui rimandi incrociati della Vita ferma testimoniano la brillantezza di una delle drammaturghe più interessanti della scena contemporanea in uno spettacolo che giunge in riva allo Stretto grazie alla collaborazione con il Festival Teatro Bastardo di Palermo e la Rete Latitudini. Un lavoro oltre la parola: di trasfigurazione in trasfigurazione lo stesso teatro subisce l’invasione del bianco, tra enormi lenzuoli di cotone ed un’inedita tinteggiatura della scaletta che conduce al palco; una presenza che trasborda al di là della rappresentazione, abbracciando i silenziosi testimoni delle vicende narrate. Come gli oggetti riversati ad ogni atto sul palcoscenico: le biglie-stelle, i medicinali, le liquirizie, ogni cosa è destinata presto o tardi a disperdersi. Abbattuti tutti i muri, solo la verità resterà prigioniera.

Domenico Colosi

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