Giovanni Moschella si dimette dal Cda: "Il Teatro è una delle case del bene comune. Così non è stato"

Giovanni Moschella si dimette dal Cda: “Il Teatro è una delle case del bene comune. Così non è stato”

Giovanni Moschella si dimette dal Cda: “Il Teatro è una delle case del bene comune. Così non è stato”

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martedì 30 Agosto 2016 - 22:07

"Dopo aver avuto l'onore di farne parte per ben 28 mesi mi permetto di pubblicare la lettera che ho inviato al Cda del Teatro Vittorio Emanuele". Così Giovanni Moschella su facebook esponendo le ragioni di una decisione sofferta che porta ad una riflessione amara sul Teatro e su Messina

Gentilissimo Presidente

scrivo questa lettera, credo l’ultima del mio mandato da Consigliere di Amministrazione dell’Ente Autonomo Regionale Teatro di Messina, in un momento molto particolare della mia esistenza. Il terremoto del 24 Agosto scorso ha messo a dura prova tutte le popolazioni interessate e, quindi, anche la mia famiglia. Non aver subito danni di alcun tipo, sia alle persone che alle cose, non mi ha permesso di rimanere insensibile ad una temperie emotiva che, anche adesso, mi consiglia di trattenermi nella mia città di adozione che, sebbene sia a 55 Km dall’epicentro del sisma, ha riportato danni agli edifici pubblici ed a quelli privati, alle chiese, alle scuole, al Palazzo Comunale ed alle case di diverse famiglie che vivono fuori dalle loro abitazioni ancora adesso. Questi eventi non possono non farci fermare a riconsiderare le principali attività della propria esistenza in una dimensione calibrata su ciò che si ritenga “necessario” ed “urgente”. La vita quotidiana, quindi, per prima. I rapporti umani con i propri concittadini, il senso meravigliosamente virtuoso dello spirito di comunità. Se un sisma può avere un pregio è certamente quello delle sue conseguenze “orizzontali”. Investe tutti, interessa il bene comune, ricrea la solidarietà perduta, ribadisce la follia del ritenersi “eterni” ed infallibili.
Da teatrante, poi, non posso fare a meno di riflettere sul fatto che questi obblighi siano gli stessi che dovrebbero caratterizzare anche l’attività di un Teatro. Poiché esso è una delle case del “bene comune”. Non può definirsi di proprietà di nessuno. Gli incarichi istituzionali che abbiamo ricoperto, infatti, in questi due anni, avrebbero dovuto costringerci a pensare che la collegialità e l’insieme delle responsabilità, sono elementi armonici di una comunità che sappia guardare al proprio futuro. Nello specifico, con una missione speciale e privilegiata quale quella di creare la “festa popolare” che, attraverso le peculiarità dello spirito dell’uomo, riesca a liberarlo da pregiudizi e preconcetti, facendo godere ciascuno della propria capacità nella direzione dell’ Utopia.

Tra una scossa e l’altra ho, quindi, letto la convocazione di questo Consiglio.
Ed ho potuto verificare come le vicende del nostro Massimo abbiano contribuito nell’accrescere una condizione di amarezza che, oggi, viene a fortificarsi.
Il nuovo corso di questo Teatro aveva creato, agli inizi, i presupposti per la formazione di un nuovo entusiasmo. L’elezione del Primo Cittadino, l’alto valore morale e culturale del Commissario Straordinario alla Provincia Regionale, la riapertura del sipario, un certo spirito propositivo e creativo avevano determinato dei presupposti interessanti. Molti, tra noi, vi si erano applicati con una dedizione partecipativa che definirei, senza credere di esagerare, entusiasmante. Ho da sempre invitato, per questo, alla fortificazione dello spirito collegiale nelle decisioni, poiché ritengo che sia proprio il Consiglio di Amministrazione il luogo della partecipazione alla gestione e dell’indirizzo politico-culturale. Il fulcro della elaborazione e della “programmazione”. Il Teatro avrebbe così, potuto determinare la vera svolta. Se il Cda fosse stato autonomo. Svolta culturale perché civile. Progressista poiché serenamente aperta al contributo esterno. Quello delle “idee”, ovviamente. La linea di demarcazione tra questo “metodo” che “include” e ciò che, egoticamente, diventa “esclusivo” è chiara. E’ quella che differenzia chi ama definire il Teatro Vittorio Emanuele come “il nostro Teatro” da chi si definisce “l’uomo giusto al momento giusto”.E allora, visto tutto quello che, da un anno e mezzo a questa parte, sta accadendo e alla luce di un tentativo di chiarezza personale, io mi chiedo: “A che serve?”.A che serve ribadire da mesi una idea di Teatro che, evidentemente, non è condivisa da molti?A che serve aver ripetuto, molte volte, che la gestione “rischiosa” delle risorse avrebbe portato a non tenere nel giusto conto la “diligenza del buon padre di famiglia”?A che serve essersi posti la domanda su cosa debba essere oggi Teatro nel territorio e quale sia la sua vocazione “contemporanea” visto che si è ritenuto preferibile, spesso, assegnare risorse a produzioni “archeologiche”, affette da “spreco cronico”? A che serve aver rivendicato la necessità che in un Teatro servano le competenze e non le “amicizie”?
A che serve aver instaurato un rapporto di disponibilità e collaborazione creativa con i professori d’orchestra, quando la professionalità di alcuni di loro sfociava nella smaccata aggressione e nella minaccia intimidatoria?A che serve parlare di“evidenza pubblica” per la scelta dei ruoli apicali dell’Ente, quando gli stessi Consiglieri d’Amministrazione che la proponevano avevano già nelle orecchie il suggerimento su chi dovesse essere scelto? A cosa serve parlare di elaborare un Bilancio quando si sostiene, in Consiglio, che non sia nostro compito quello di saperlo consultare? A cosa serve alimentare, all’interno e all’esterno del Teatro, un chiacchiericcio provinciale e disinformato che provoca deliberatamente nocumento all’attività e all’economia dell’Ente, solo perché in questa fase si sia rimasti fuori dalle scelte? A cosa serve sperare, come molti fanno, che tutto vada male, oppure, peggio, poter essere felici dell’eventualità di una possibile liquidazione dell’Ente?
A cosa serve preferire scelte che prevedano una attività ridotta o, addirittura, nulla del Teatro per poter godere dei salari senza alcuno sforzo?

E, nello specifico dell’o.d.g.: A cosa serve approvare un Decreto dell’Assessore Regionale che ci impone di modificare lo Statuto dell’Ente che, al contrario, prevede di poter esser modificato solo da una legge successiva a quella istitutiva?
A cosa serve, quindi, decidere di essere sciolti come Consiglio, quando già lo si è, nei fatti? A cosa serve approvare un Bilancio e prevedere “debiti fuori Bilancio” che non esistono, poiché rappresentano cifre che erano previste in una “programmazione” per la quale il Consiglio aveva chiesto ed ottenuto la certificazione di “copertura finanziaria”? A cosa serve invocare l’accensione di un “mutuo”, sapendo che questa procedura, sia già vietata dalla Legge, fin dal 2001?
A cosa serve scrivere un Regolamento di Gestione di uno spazio Comunale, sottraendo qualsiasi attività di indirizzo politico e culturale al Consiglio di Amministrazione, preferendo, al contrario, una dichiarazione d’intenti, molto discutibile, di supina accettazione delle proposte di chiunque? A cosa serve avvalersi dell’operato di un Dirigente Regionale che viene nominato, senza la qualifica di Commissario, per occuparsi dei Bilanci, quando sono ancora in carica, e , quindi, anche retribuiti, il Consiglio di Amministrazione ed il Sovrintendente? A cosa serve discutere della Relazione del Direttore Artistico della Musica che, quasi a giustificarsi, deve fornire i numeri dell’evidente impegno che ha profuso nei confronti dell’organico orchestrale del Teatro? A che serve partecipare ad un Consiglio che preveda, all’ordine del giorno, la scelta di indirizzi sul “contenimento della spesa”, quando, da sempre, con pochi altri, mi sono battuto perché il Teatro non si caratterizzasse per produzioni che, in Consiglio, avevo definito “immorali”?

A cosa serve questa lettera, quindi? Visto che, non so come, ma sicuramente in modo virtuoso, il nostro Teatro, non appena saremo sostituiti, potrà certamente contare su un Consiglio più competente ed efficace? Probabilmente a nulla.

E’ solo un saluto amareggiato. Nel porgerlo, e nel tornare ad occuparmi di ciò che, al contrario, ritengo serva, voglio ringraziare tutte le persone con cui ho condiviso questo percorso giorno per giorno e con le quali ho potuto sinceramente e, soprattutto, disinteressatamente, prodigarmi per ciò che ho ritenuto essere il bene del “nostro Teatro”. Riconoscere negli altri chi abbia un approccio “prezioso”, chi preferisca mettere tutta la propria energia al “servizio” della comunità serve. Questo serve. Si. A chi pensa di poter vivere e parlare di “cultura”, coniugando i verbi solo alla prima persona singolare e di non aver bisogno, quindi, del confronto con nessuno, io auguro un “buon viaggio”.Alla nostra città, a quella dove sono nato, auguro di poter individuare al più presto uno scopo comune, condiviso, anche semplice, come, ad esempio, fare pulizia, per dichiararsi comunità adulta e per non vivere tutta la propria esistenza nello sperare di essere al servizio del “più forte” di turno.

Nel salutare tutti esprimo, come sempre, il mio unico e solo riferimento programmatico. CHE VIVA IL TEATRO !

Giovanni Moschella

2 commenti

  1. Bravo! Ce ne vorrebbero molti come te, però tutti si arrendono, se ne vanno e ci lasciano in braghe di tela….

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  2. Bravo! Ce ne vorrebbero molti come te, però tutti si arrendono, se ne vanno e ci lasciano in braghe di tela….

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