Affabulazione. Parole in libertà

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Tosi Siragusa

Affabulazione. Parole in libertà

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mercoledì 20 Giugno 2018 - 06:09

Una struttura sfilacciata che non coglie l’essenza della tragedia pasoliniana per lo spettacolo firmato da Boncoddo

Dopo le anteprime programmate alla libreria Colapesce e al Castello Spadafora, nello scorso fine settimana è stato rappresentato alla Sala Laudamo Affabulazione di Pier Paolo Pasolini, una messinscena di Giovanni Gionni Boncoddo con Enzo Cambria, Gabriele Crisafulli, Peppe Galletta, Ersilia Gullotta, Luca Stella, Damiano Venuto e la partecipazione di Tonino Cannuni, Daniela Conti, Ferruccio Ferranti e Lucilla Mininno. Le musiche si sono attestate a Toni Canto.

Prologo, otto episodi ed epilogo: questa la struttura della tragedia pasoliniana, composta nel 1966 e edita dapprima nel 1969 in rivista “ Nuovi Argomenti” e poi in volume Garzanti “Affabulazione.Piliade” del 1977, dunque, postuma. Poche in verità le “mise en scene”, fra le quali si citerà quella, sempre del 1977, di Vittorio Gassman, ove lo stesso artista si cimenta altresì nel ruolo del Padre. Di difficile resa, essendo opera oltremodo cerebrale, incentrata intorno alla funzione stessa dell’intellettuale, che vorrebbe essere anche soggetto attivo della società, e insieme sul mistero della potenza virile e dell’elemento irrazionale che irrompe e scompone gli assetti ordinati dell’esistenza, che si vorrebbe basata su ironia e meditati e composti silenzi. Lo schema pasoliniano è chiaramente da ricondurre alla tragedia greca, con l’ombra di Sofocle che apre e chiude, e proprio nel prologo precisa che la tragedia finisce ma non comincia, avendo radici insondabili, permeata come è non solo del mito – oltre Edipo, qui in parodia, anche Eracle a confronto con il discendente Illo – ma altresì delle teorie freudiane. Quel Padre non riesce a penetrare con la ragione l’enigma filiale (atteso che è invece un mistero) e ne è ossessionato, invidia la giovinezza del giovane rampollo e il rapporto con la sua ragazza (che è definita “puttanella”), si confronta sovente con la Religione impersonata da un Reverendo, (che non riesce a dar soccorso), e arriva a donare al Figlio un coltello, oggetto simbolico, attraverso il quale è poi ferito da quella stessa sua prole. La funzione della Madre è di non comprensione di quelle maschie emozioni, dalle quali si sente tagliata fuori, e alfine si impicca, novella Giocasta. Il Figlio scappa continuamente ed è spiato nei momenti di intimità dal Padre, che infine lo uccide in modo degenere, commettendo, a suo stesso dire, regicidio.

Boncoddo ripercorre a suo modo la difficile traccia, ma si intuisce la sua deferenza per il grande P.P.P., ma non è certo aiutato dalle interpretazioni, quasi tutte al di sotto della accettabile sufficienza, eccettuate quelle del protagonista e del narratore; anche gli interventi musicali e canori, di per sè validi, non si armonizzano con il tutto, rimanendone staccati. Risalta in tutta evidenza come l’opera non sia riuscita a rendere l’anima pasoliniana, in una rappresentazione sfilacciata, supportata, va detto, tecnicamente da un buon utilizzo delle luci di scena – di Renzo Di Chio – che, come fiaccole, cercano di illuminare gli abissi esistenziali. Applausi misurati dal pubblico presente in sala per questo spettacolo di chiusura, fra luci e ombre, della rassegna “Laudamo Show off”.

Tosi Siragusa

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