I Miserabili, opera immensa di Hugo, è in scena al teatro Vittorio Emanuele, da venerdì 8 a domenica 10 marzo, nell'adattamento teatrale di Luca Doninelli, con la regia di Franco Però.
“Amici miei, tenete a mente questo: non ci sono né cattive erbe né uomini cattivi. Ci sono solo cattivi coltivatori”.
Queste parole sono il centro focale della riflessione che “I Miserabili”, l’eterno capolavoro di Victor Hugo, si propone di generare nel lettore. È un’opera sempre attuale, perché si pone quale specchio sull’umanità, i suoi valori fondamentali e le emozioni inalienabili, sulle difficoltà di una società dura e meschina e sulle sofferenze dell’animo, tematiche che colpiscono in prima persona ciascuno di noi. Da qui nasce la scelta coraggiosa del regista Franco Però e di Luca Doninelli che ha realizzato l’adattamento teatrale, di portare in scena I Miserabili. In una società in cui il divario tra chi è ricco e inserito e chi povero ed emarginato si accentua sempre di più, quale opera migliore di questa e quale riflessione migliore sulla dignità umana, il dolore, la redenzione, il bene e il male, di quella che Hugo sviluppa.
Così “I Miserabili” arrivano a Messina, al teatro Vittorio Emanuele II, venerdì 8 e sabato 9 marzo alle 21,00, domenica 10 alle 17,30.
La rappresentazione rispecchia fedelmente la trama, con la capacità di semplificare e rendere immediati, forti e diretti i dialoghi, più articolati e difficili nell’originale. I 15 anni di tempo nei quali si svolge la narrazione sono riassunti tralasciando i dettagli della sommossa parigina del 1832, cornice storica del racconto, e accentrando, invece, l’attenzione sui personaggi, sulle loro sfaccettature caratteriali, sulle loro azioni e le loro scelte, in modo tale da far riflettere e palesare l’incredibile legame, ancora presente, del grande romanzo dell’Ottocento romantico francese con la nostra realtà, con la nostra società.
Dall’apertura del sipario ci addentriamo in un mondo duro, misero, tragico, a dimostrarlo è ogni dettaglio: le scenografie di Domenico Franchi, volutamente semplici e grigie, fatte di parallelepipedi e pannelli scorrevoli, tavoli e sedie, che gli attori stessi aprono e chiudono, portano o tolgono; le luci di Cesare Agoni, sempre oscure e buie; i costumi di Andrea Viotti e le musiche di Antonio Di Pofi, capaci di rispecchiare la carica emotiva di ciascuna scena.
Lo spettacolo si apre con il famoso confronto tra Jean Valjean (Franco Branciaroli) e il Monsignor Myriel (Alessandro Albertini). Jean Valjean, appena rilasciato da 14 anni di carcere per del pane rubato e diversi tentativi di evasione, viene accolto in casa dal Monsignore, ruba lui le posate d’argento e fugge. Catturato dalla polizia, è riportato dal vescovo che, non solo afferma di avergliene regalate, ma dona lui anche due candelabri, con una sola promessa: usare quei soldi per diventare finalmente una persona per bene, “adesso ho comprato la vostra anima, appartiene al bene, non più al male”.
Questo gesto colpisce profondamente Jean e pone avvio al suo cammino di redenzione. Il vescovo ha donato lui la libertà più grande: la libertà di scegliere, di decidere chi si vuole essere e come si vuole agire; questo genera in lui l’esigenza incontrastabile di ripagare il bene col bene.
La sua vita cambia, così, del tutto. Assume una nuova identità, è Monsieur Madeleine, un cittadino rispettabile e caritatevole, a tal punto da essere nominato sindaco di Montreuil-sur-Mer. Tra le opere di bene che compie, si affeziona a Fantine (Ester Galazzi), una poverissima ragazza madre, licenziata da una delle sue fabbriche e costretta a fare la prostituta per guadagnare qualcosa per la sua bimba Cosette, affidata ai coniugi Thénardier, due locandieri (Riccardo Maranzana e Maria Grazia Plos).
L’ispettore di polizia Javert (Francesco Migliaccio), che continua a cercare Jean Valjean, è l’unico a sospettare dell’identità di Monsieur Madeleine, finché un povero uomo viene catturato e condannato a 20 anni di lavori forzati con l’accusa di essere Jean Valjean. L’accaduto genera nel sindaco una profonda crisi di coscienza, da una parte il senso di sollievo involontario all’idea di porre fine ai suoi problemi, ma dall’altra la consapevolezza di divenire il più infame dei ladri, capace addirittura di rubare la vita ad un’altra persona. Dal suo turbamento interiore provengono le prime riflessioni importanti sul bene e il male. Non vige tra essi una netta dicotomia, non sono l’uno opposto dell’altro, ma due facce diverse del nostro essere, bene e male vivono in ciascuno di noi, spetta a noi semplicemente scegliere da quale dei due farci orientare. E il pubblico in sala già applaude.
Lasciar morire un uomo al posto proprio è inaccettabile, Jean Valjean decide, allora, di recarsi al processo e autoaccusarsi: “ho cercato di liberarmi dall’infamia, ma da essa non ci si libera… Non sono i galeotti a fare le prigioni, sono le prigioni a fare i galeotti” afferma. Non gli resta, adesso, che tornare a fuggire, dopo aver dato un ultimo saluto a Fantine, assistendo alla sua morte.
Jean Valjean, dopo aver cambiato nuovamente identità, scopre il trattamento disumano che viene riservato alla piccola Cosette e riesce, pagando una somma ingente, a portarla via con sé. I due si nascondono, per sei anni, in un convento a Parigi, finché decidono di andar via; è giusto che Cosette, divenuta una giovane fanciulla (Romina Colbasso), conosca il mondo.
Nel frattempo, in Francia, i giovani più brillanti, liberali e repubblicani, sognano di poter cambiare le sorti della loro epoca, brindano a Voltaire e Rousseau e credono in “una rivoluzione che riscatti il passato, il presente e il futuro”. Uno di questi, Marius (Filippo Borghi), incontra Cosette nelle sue lunghe passeggiate e i due si innamorano senza neanche conoscersi. L’amore per la bella fanciulla dalla “testa della Vergine di Raffaello sul corpo di Venere” colpisce totalmente il giovane Marius, travolgendo lui, e lo spettatore, nell’analisi sulla forza travolgente di questo sentimento a causa del quale “non sai come sia successo, né quando, ma sai solo di essere in trappola… e tutta la tua esistenza dipende dalla macchina che ti ha intrappolato”. Con queste parole si conclude il primo tempo.
Nel secondo tempo, Marius scopre grazie ad Eponine (Valentina Violo), figlia di Thénardier, l’abitazione di Cosette, il loro amore cresce, ma Cosette è costretta a fuggire di nuovo, questa volta in Inghilterra. La fanciulla vorrebbe che Marius la seguisse, a lui mancano i soldi per poterlo fare, la bacia e fugge via. Per Marius il mondo non ha senso senza l’amata, decide perciò di morire, combattendo con i suoi compagni. Iniziano gli scontri dei rivoluzionari contro le truppe di Luigi Filippo, guidati dai soli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità, “per una sola madre: l’umanità e un solo padre: il diritto”.
Marius, nel tentativo di salvare il piccolo Gavroche, mascotte dei giovani repubblicani e fratello di Eponine, gli affida una lettera da consegnare a Cosette; lui, però, la lascia a Jean e torna a combattere, dove perderà la vita. Insieme a lui, anche Eponine, trafitta da un proiettile per difendere Marius, a cui confessa il suo amore e consegna una lettera poco prima di morire.
Intanto Jean legge la lettera di Marius per la figlia. Il giovane parla del loro amore contrastato e del suo desiderio di morire non potendola vedere più; Jean, pur se travolto dalla gelosia, decide forzatamente di intervenire alla rivolta per proteggere Marius.
Durante la sommossa Javert viene catturato e proprio a Jean è affidato il compito di giustiziarlo. È il momento per il protagonista de “I Miserabili” di ricambiare il bene ricevuto. Risparmia l’ispettore e dà lui il suo indirizzo, offrendogli la possibilità di catturarlo, “siete libero, morirete da uomo libero, questa è la mia vendetta”. Come all’ex galeotto fu offerta la possibilità di scegliere, così adesso tale libertà spetta a Javert, il quale entra, a sua volta, totalmente in crisi.
“Un galeotto benefattore che restituisce il bene per il male, che preferisce il perdono alla vendetta? Non è scritto in nessun codice! Che fine ha fatto il Bene? Che fine ha fatto il Male? Che fine ha fatto il Mondo?”.
Anche qui il pubblico applaude, le sue domande, le domande sul bene e sul male che questi uomini si ponevano, già, nel 1800, sono ancora quelle di ciascuno di noi, quelle che ognuno custodisce nel cuore, alle quali, probabilmente, non troveremo mai una risposta precisa.
Javert non riesce a vedere al di là della netta separazione tra bene e male, la complessità dell’animo umano e la sua conseguente inspiegabilità lo terrorizzano al punto da portarlo al suicidio, manca a lui la forza di abbandonare le antiche convinzioni e cambiare vita; la libertà comporta il peso della responsabilità. Il rischio che Jean Valjean prese 15 anni prima è, per Javert, impossibile da assumere e lo porta al suicidio.
Marius, durante un confronto con Jean, viene ferito; Jean deve riuscire a salvarlo e inizia a fuggire, con il giovane in braccio, per le fognature.
La scena cambia, sono passati anni, Cosette e Marius sono sposati ma Jean Valjean è fortemente malato. Sul letto di morte racconta agli sposi tutta la verità sulla sua vita, su Fantine, sul suo passato, sul bene ricevuto e il dolore patito, solo così può andarsene in pace, concludendo la sua vita con queste parole “amatevi sempre, che al mondo non c’è altro che questo: l’amore”.
Si chiude il sipario, in mezzo agli applausi del pubblico.
La grandiosità dell’opera è nota, ma altrettanto grande è il merito di questa sua rappresentazione, capace di far calare a pieno lo spettatore nel tempo e nelle dinamiche del racconto, grazie all’interpretazione diretta, intensa, angosciante dei suoi personaggi e alla cura di tutti i particolari. Così come, continuamente, nel corso dello spettacolo viene sottolineato il termine “miserabili”, allo stesso modo ogni aspetto del dramma incarna questa realtà, mostrando, però, quanto di ricco ci sia nel povero, di grandioso nel misero, di bello nel brutto e di bene nel male. Non vi sono personaggi cattivi, non lo è neanche Javert, la sua colpa principale è il rispetto morboso ed impersonale per la legge, la sua incapacità di guardare oltre, svincolandosene. L’animo umano è complesso, è complicato, ma sta in questo la sua grandezza, la sua capacità di essere tutto ciò che si desidera essere, di agire come si vuole agire e di scegliere la vita che si vuole vivere.
Non si può non amare il confronto tra la profondità degli argomenti trattati e la leggerezza dell’amore tra i protagonisti, per i quali “basta che ti innamori tutto è eterno”, “il guaio è che il mondo e la storia non sono fatti così”, o la gelosia paterna di Jean Valjean, che fa sorridere. Questi intermezzi danno sospiro all’atmosfera seria e pesante del racconto. Peccato soltanto per il breve spazio dedicato alle morti dei rivoltosi e al suicidio di Javert, non chiarissimo, o al frequente utilizzo del discorso indiretto per raccontare quanto accaduto piuttosto che rappresentarlo, come avviene per la morte di Eponine, ma sono scelte dovute alla laboriosità del racconto, delle sue digressioni storiche ed alla violenza delle scene.
Vera protagonista è l’interpretazione degli attori, dalla piccola Silvia Altrui, capace di dar vita, in maniera forte e impeccabile, sia Cosette bambina che a Gavroche, all’Eponine di Valentina Violo, “fiore reciso e caduto nel fango”, nevrotica, gelosa, inopportuna, ma forte, coraggiosa e altruista. “Io sono una donna e voi siete uomini e credete di farmi paura solo per questo” afferma. Incredibile la modernità di un messaggio proveniente da questa figura controversa e difficile che Eponine costituisce, forse tra le più belle del romanzo. Una donna che, da sola, sa tenere testa a un branco di uomini importuni “voi siete quattro ed io una. Bene, io sono il resto del mondo” continua a urlare con coraggio, al fine di difendere Marius e Cosette e impedire che vengano trovati, andando contro il suo stesso sentimento d’amore per il giovane.
Uno spettacolo che spinge a scrutare più nel profondo il proprio animo, abbandonando certezze fisse e dogmatiche e accettando le contraddizioni e le complessità, scoprendo in esse non un limite bensì una potenzialità. Uno spettacolo che spinge ad avere fede nella capacità di cambiare, nella facoltà dell’uomo di scegliere, nella sua libertà e nella potenza dei suoi sogni perché scrive Hugo: “non vi è nulla come i sogni per creare il futuro. Utopia oggi, carne ed ossa domani”.