"Ci arrestano tutti". Così commentavano già 3 anni fa gli indagati dopo i primi controlli. La convinzione sbagliata di non essere "beccato" per le truffe.
“Tutte cose mi levo! “E’ il 7 luglio del 2017, Antonino Conti Mica è in auto e racconta così a Giuseppe Costanzo Zammataro che nel maggio precedente ha venduto parte della sua mandria al cognato Daniele Galati Pricchia. “Perciò prima o dopo di arrestare…ci arrestano (…) sequestrano i titoli…”, gli dice ancora.
Conti Mica non poteva sapere di avere l’auto imbottita di cimici del Ros, che di “profezie” come queste dal gennaio 2016 a ieri, quando è scattato il blitz Nebrodi, ne hanno intercettate diverse. Tra i tortoriciani, insomma, c’era la paura e la quasi certezza che presto o tardi lo Stato sarebbe arrivato.
Un’altra “profezia” l’avevano intercettata i finanzieri, nel maggio del 2016, a casa di Antonino Faranda e la moglie Rosa Maria Lupica Spagnolo, la sera successiva alle perquisizioni effettuate dalla Gdf dai loro più stretti familiari.
“A bissaru a Carola”, dice la donna al marito, a proposito delle carte sequestrate alla nuora (a bissaru, l’hanno sistemata in dialetto”. Al marito che chiede “perché”, la donna racconta che le hanno sequestrato anche denaro, come fatto anche al figlio Gaetano Faranda “A Tano pure glieli hanno presi…(…) ora arrestano, sicuro!..arrestano…a qualche poco ci arrestano..”
Queste sono soltanto alcune delle conversazioni che oggi l’operazione Nebrodi permette di conoscere, che hanno permesso alla Dda di Messina di svelare come venivano controllati e gestiti gli ingenti flussi finanziari derivati dai contributi comunitari. A fare le domande per i contributi agricoli sono parenti incensurati o prestanomi molto vicini e fidati.
Dietro, però, ci sono nomi storici della mafia di Tortorici, già coinvolti in diverse operazioni antimafia. “Noialtri i terreni gli possiamo prendere a questi qua… a tutti i paesani… ai ‘malandrini’… gli possiamo prendere tutte cose… e loro si devono stare muti… perché se appena fanno qualcosa… non vi mettete di traverso perché vi schiuppammu tutti… ed è finita… basta… se ne devono andare a zappare.”, dice ancora uno di loro.
Dalla faida degli anni ’90 e i maxi arresti che ne sono seguiti, i tortoriciani hanno imparato che per fare i soldi bisogna “inabissarsi”. E hanno anche imparato che con le truffe si guadagna di più e si rischia di meno che con le estorsioni.
In una conversazione tra Coci Domenico e Conti Mica Sebastiano, mentre danno “i numeri” sulle imprese false da usare per arricchirsi con gli aiuti comunitari (“,6,10”) Coci Domenico fa un suo calcolo.
Per una profezia azzeccata, però, ne arriva una sbagliata: “e ci … e ci denunciano niente ci fa …inc… con altri millecinquecento euro apri al cooperativa … la faccio pure io, voglio credere … più che ti possono dare, truffa? che cazzo ti interessa”.
“Avevano una attenzione maniacale per le bonifiche ambientali”, hanno spiegato oggi gli inquirenti, Erano molto cauti nel parlare al telefono, e facevano spesso controllare auto e luoghi dove si incontravano. Come il ristorante La Quercia, tra Tortorici e Castell’Umberto, dove si sarebbero svolti diversi summit, secondo i carabinieri.
Attenzioni che sembrano non essere bastate. I dialoghi intercettati dagli investigatori in questi tre anni, infatti, sono moltissimi.