Domenica u.s., al Palacultura, il pianista messinese Santi Calabrò, per la stagione concertistica della Filarmonica Laudamo, ha presentato un programma dal titolo “Beethoven: 1770-1827. Ritratto dell’artista da giovane”.
Il concerto ha visto l’esecuzione di alcuni brani del grande compositore tedesco, composti nell’età giovanile della sua vita.
Il pianista ha iniziato la sua performance con l’esecuzione della Sonata giovanile in do magg. op. 2 n. 3, l’ultima di un gruppo di tre Sonate, composte da un musicista poco più che ventenne. Una Sonata che, ovviamente, risente dell’influenza delle sonate settecentesche, in particolare Clementi e Haydn (al quale le tre Sonate sono state dedicate) ma che ci fa intendere come Beethoven sia già proteso verso il futuro: intanto per la scelta di quattro tempi, conferendo alla Sonata, considerata un genere piuttosto minore all’epoca, la dignità dei quartetti d’archi, e lasciando presagire la fondamentale importanza che questo genere avrà in tutta la sua parabola compositiva; poi per la sorprendente maturità che il giovane musicista dimostra nell’Andante, un brano di particolare profondità, che in alcuni punti sembra anticipare addirittura Schumann.
Ha fatto seguito l’”Andante favori” in fa mag. WoO 57, un brano composto già in età più matura (1803), che doveva essere il secondo movimento della celeberrima Sonata “Waldstein” Opus 53, poi sostituito da un altro brano, probabilmente a causa della sua lunghezza. Il titolo “Favori” fu dato da un allievo di Beethoven, Czerny, autore notissimo a tutti gli studenti di pianoforte per i suoi studi sulla tecnica, a causa della popolarità che il brano godette all’epoca.
La Sonata in re magg. op. 10 n. 3, terzo brano eseguito, è l’ultima di un’altra serie di tre sonate, anch’essa in quattro movimenti. Se il primo tempo, vivace e brillante, ci ricorda il pianismo di Scarlatti, mentre gli ultimi due appaiono un po’ convenzionali, il movimento lento “Largo e mesto”, rappresenta un momento di eccezionale evoluzione artistica del musicista di Bonn. Un lamento profondo e interiore, un canto di dolore, ove buona parte dei i critici musicali scorge una anticipazione di quel brano straordinario della grande maturità artistica, l’Adagio della Sonata op. 106 “Hammerklavier”.
Il piatto forte del concerto è stato indubbiamente l’ultimo brano eseguito, una delle sonate più celebri di Ludwig Van Beethoven, la n. 8 in Do Minore, op. 13 “Patetica”, nei movimenti: Grave. Allegro di molto e con brio, Adagio cantabile, Rondò: Allegro. La Sonata, dedicata al principe Karl Von Lichnowsky, fu inviata da Beethoven anche a quello che rappresentò il grande amore della sua vita, Josephine Brunsvik, a riprova che il grande musicista trasferì nella sonata tutta la sua passione. L’appellativo Patetica è dello stesso Beethoven, ma il significato del termine non corrisponde a quello odierno, che assume quasi una connotazione negativa, ma deriva letteralmente da pathos, cioè sentimento, passione. Capolavoro emblematico dello Sturm und Drang, la sua impetuosa drammaticità si manifesta immediatamente nel Grave iniziale, un tema sinistro che rimane impresso nella memoria e che prelude all’inquieto allegro del primo movimento; il celeberrimo adagio, è uno dei brani di più elevata nobiltà d’animo regalatoci da Beethoven, fra quelli che rimangono impressi per sempre nella memoria, e rappresenta il momento culminante della Patetica, vero archetipo del romanticismo musicale tedesco; il rondò finale, per quanto ben costruito e di carattere anch’esso drammatico, non raggiunge però le vette toccate dai primi due movimenti.
Apprezzabile l’esecuzione di Calabrò, anche se talora è sembrata un po’ frettolosa, in particolare nel primo movimento della Patetica.
Il pianista messinese ha poi offerto al poco numeroso pubblico presente uno splendido bis: il celebre Improvviso D899 n. 3 di Franz Schubert, un meraviglioso andante, una delle più ispirate melodie del compositore austriaco.