“La vita ha un dente d’oro” - Commovente e incisivo atto d’amore per l’umana esistenza e, segnatamente, per l’universo teatrale.

“La vita ha un dente d’oro” – Commovente e incisivo atto d’amore per l’umana esistenza e, segnatamente, per l’universo teatrale.

Tosi Siragusa

“La vita ha un dente d’oro” – Commovente e incisivo atto d’amore per l’umana esistenza e, segnatamente, per l’universo teatrale.

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sabato 24 Luglio 2021 - 17:55

Per l’encomiabile Rassegna “Segnali di vita..” nell’ambito della fortunata decennale edizione del Cortile Teatro Festival, abilmente diretta da Roberto Zorn Bonaventura, è andata in scena,nel felice binomio con eccellenti momenti eno-gastronomici, al Cortile Calapaj – D’Alcontres, la preziosa piece, magistralmente diretta da Claudio Morganti, artista di indiscusso valore. Il focus è sul magico, ma difficile e oneroso(per chi lo pratica davvero) universo del teatro, ove, come nelle esistenze reali, ciò che è visibile non coincide con ciò che è, soprattutto in questi nostri tempi, per così dire eufemisticamente bui. L’intitolazione trae la sua genesi ed è derivazione di una antica espressione bulgara, che rimanda alla necessità di mettere una pezza ad una bocca,(come ad una vita) per renderla funzionale.

La Compagnia del cennato artista, “Esecutivi per lo spettacolo” di Prato, ha prodotto la pregevole rappresentazione, con lo script di Rita Frongia, volutamente non ridondante e, al contrario, davvero conciso e essenziale, di un minimalismo dell’anima,che ha potuto fruire di una “mise en espace” d’eccellenza, ove (neanche troppo in controluce) campeggia il perseguimento di una finalità altra, e alta, della ricerca, cioè, imperitura e mai paga, intorno quel mondo a sé, che è il Teatro.

Lo spettacolo – non spettacolo – volge le spalle e non strizza mai l’occhio alla compiacente “audience” dei potenziali fruitori, mai inseguita e, a mio avviso, giustamente, non tenuta in assoluto conto.

Quanto detto, non certo in spregio del pubblico, né, tanto meno, della domanda a target diversificato che sovente (assai sovente) si tiene presente, ma contro quella acritica finalità di soddisfare la stessa, piegando il prodotto artistico a preconfezionate regole (non scritte).

Gli interpreti, Francesco Pennacchia, pugliese – calvo, in maglietta rossa- e Gianluca Stetur, milanese- in maglione e sciarpa a righe in pendant, con la testa misteriosamente fasciata in bianco e un metaforico naso rosso -in una perfetta calibrata resa dei rispettivi non-personaggi, sono sostanzialmente esemplari emblemi dell’arte attoriale teatrale, che da momento di finzione si fa significante “mise en scene” della realtà di una categoria artistica – che ne racchiude a mio avviso altre – ingiustamente mai troppo osannata, poiché fino in fondo non davvero compresa nei diuturni impervi percorsi professionali (che inevitabilmente non possono non condizionare quelli esistenziali).

La loro conversazione – sovente sensata e a tratti surreale – abbraccia tematiche universali, mentre si esibiscono in una sorta di solitario, accapigliandosi intorno ai suoi esiti.

Le loro espressioni, che nell’incipit utilizzano un atipico pugliese-ucraino, assai godibile, mano a mano, a mezzo di toni che si fanno più sussurrati e coinvolgenti, con riferimenti a ricordanze familiari dei tempi andati, ed a quella prima sottesa morte, che infine pervade di sè l’ambientazione, rendono tutta la drammatica condizione esistenziale umana in generale, e artistica nella specie.

Una partita con la Morte, forse, persa in partenza, perché “L’universo finirà in bisbiglio” e c’è la malinconica consapevolezza che “Sarà difficile abituarsi a non essere più”…. mentre la piccola macchia di rosso sangue sulla benda si va allargando a dismisura.

La musica, o meglio la sua assenza per scelta, se si eccettua il momento finale, comunque con gli esplosivi e dissonanti suoni, eseguiti da Pennacchia alla bianca chitarra elettrica, non ha dunque potuto alleggerire il contest, suggellandone invece il messaggio conclusivo, consegnato, questo sì agli spettatori, numerosi, attenti e coinvolti, e, secondo me, in gran parte riconosciutisi nella estraniante piece, in quanto concretamente, alias realmente, inseriti nella prospettiva rappresentata.

Scena giustamente spoglia, con i due smarriti esseri che giocano a carte seduti attorno a un tavolo, ove sono poggiati una bottiglia di liquore e un bicchierino….e il cennato strumento musicale in bella mostra prima del suo utilizzo.

Il senso della criptica piece potrebbe forse rintracciarsi in ciò, che l’attuale deleterio processo di mercificazione dell’arte andrebbe con forza arrestato e invertito, riconsegnando, in particolare il Teatro, alla forza delle origini, ripercorrendo le nostre classiche ascendenze greche, per rintracciarne la giusta “ratio” e la vera essenza di quel Teatro che all’aperto che era rito, ritiro, raduno di un popolo, mai sacrificato sull’altare del conformismo e della discutibile finalità del facile successo perseguito costi quel che costi, a scapito della qualità e della ricerca.

Sarebbe riduttivo definire la rappresentazione quale prototipo del Teatro dell’assurdo tout court, “Archeologia teatrale” la appella propriamente Morganti, id est andare alle origini della tradizione, quasi (non del tutto per fortuna)defunta, di quell’intrigante, serio gioco di finzione che l’Arte, in ogni sua sfaccettatura, dovrebbe rappresentare, con ironia, se del caso, racchiudendo in sé autenticità (che non è riproduzione documentaristica), fede, e, perché no, un pizzico di sana idiozia.

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