"12 anni schiavo", l'ultima "fatica" di Steve McQueen

“12 anni schiavo”, l’ultima “fatica” di Steve McQueen

Tosi Siragusa

“12 anni schiavo”, l’ultima “fatica” di Steve McQueen

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lunedì 03 Marzo 2014 - 10:20

Steve McQueen sfida quasi la coscienza di noi spettatori, obbligandoci in modo eccessivo e esibito, ad assistere ad una rappresentazione di torture sulla carne e sull’anima, di supplizi, percosse, fustigazioni, agonie e violazioni, suscitandoci il più profondo malessere – orrori su orrori, sovraccarico di emozioni forti si placano solo in quei piani notturni e irreali della Louisiana, riprodotti da una eccellente fotografia

Steve McQueen, regista quotato, ha diretto, prima di questo oggi in trattazione, altri due lungometraggi, accomunati da un denominatore comune, cioè un mix di impegno e provocazione. Anche in questa sua ultima fatica di genere biografico, ambientata nel 1841 (l’adattamento trae linfa dal romanzo omonimo del vero protagonista) dramma sulla schiavitù, McQueen affronta un altro tema forte: l’oppressione di Solomon Northup, interpretato da Chiwetel Ejiofor, uomo libero e talentuoso violista di colore, artatamente rapito, derubato dei documenti e venduto come schiavo ad un ricco proprietario di una piantagione di cotone del Sud agrario e passato di mano in mano, per dodici anni, in un infernale meccanismo contrassegnato da patimenti fisici e psicologici, alla mercé di padroni deboli o degeneri; la fine di quello svilimento progressivo giunge con il soccorso di un architetto canadese abolizionista, validamente portato sul grande schermo da Brad Pitt, ed a Solomon è consentito di tornare al suo mondo, alla moglie ed ai bambini, fatti ormai adulti.

Salomon vive quei dodici anni in costante attesa, mette la sordina ai propri istinti per restare in vita e riprendersi la sua esistenza ed il suo nome ed attraverso la sua vicenda viviamo lo svilimento progressivo di un corpo sottomesso alla violenza del mondo.

Il cinema americano prova nuovamente a fare i conti con la mostruosità di quel peccato originale, che è stato la schiavitù e che quel Paese non ha ancora assorbito e superato. Rispetto agli altri schiavi Salomon appare da subito fuori dal comune per i talenti, l’istruzione e la precedente condizione di uomo libero e proprio per tali fattori riesce a sfuggire al destino del popolo suo pari e a venir fuori da quel girone infernale che lo aveva privato dello status sociale, degli abiti, della parola e del nome, senza risparmiargli nulla.

Steve McQueen sfida quasi la coscienza di noi spettatori, obbligandoci in modo eccessivo e esibito, ad assistere ad una rappresentazione di torture sulla carne e sull’anima, di supplizi, percosse, fustigazioni, agonie e violazioni, suscitandoci il più profondo malessere – orrori su orrori, sovraccarico di emozioni forti si placano solo in quei piani notturni e irreali della Louisiana, riprodotti da una eccellente fotografia.

Personaggio di spicco, pur nella corale esposizione di quei corpi poveri e martoriati, è la bellissima schiava Patty, portata in scena da Lupita Nyong’o, di eccezionale bravura, sottoposta a continui stupri da parte del sadico e disturbato schiavista e terrificante ubriacone, dalla contorta psiche – che appare quale metafora delle origini della crudeltà privata e sociale – reso egregiamente da Michael Fassbender, attore feticcio del regista e perfetto interprete, ancora una volta, del suo pensiero ossessivo. Paul Giamatti interpreta un ometto, che reputa gli schiavi simili ai cavalli….

Il primo proprietario è un pastore protestante, illuminato… nei limiti consentiti da quella società ed è impersonato da Benedict Cumberbatch. Le mogli dei due padroni sono perverse, l’una chiusa nel suo piccolo e finto universo, sorda rispetto all’orrore che le sta attorno (le sue parole ad una delle schiave appena separata dai figli sono irripetibili nella loro crudezza: “vedrai … quando ti sarai riposata e rifocillata non penserai più ai tuoi figli”) e l’altra che incita il folle marito a fustigare quasi a morte la bella schiava, suo capro espiatorio, e della quale è profondamente gelosa.

In conclusione il film, candidato a nove oscar, pecca forse per la pesantezza delle scene eccessivamente violente, che trovano culmine nel piano-sequenza infinito del protagonista appeso ad una corda, in equilibrio sulla punta dei piedi, puntati per evitare di soffocare… ed è davvero troppo … il pensiero ossessivo del regista, è umiliante per gli spettatori, che quasi si sentono responsabili di quei patimenti. Alle didascalie conclusive è affidato l’esito negativo della battaglia legale sostenuta e persa dal vero protagonista contro i rapitori.

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