L'avvocato socialista sposa l'impegno dei Radicali. «Neppure la vittoria del "Sì" in tutti i quesiti eliminerebbe il malfunzionamento della Giustizia»
REGGIO CALABRIA/MESSINA – Tempostretto prova a contribuire a far luce sui cinque referendum abrogativi in materia di Giustizia su cui si andrà a votare domenica prossima, 12 giugno.
In questo caso, l’abbiamo fatto sentendo l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, socialista di lungo corso e da tempo alfiere della causa dei Radicali, per le ragioni del “Sì”; e la senatrice Grazia D’Angelo del Movimento Cinquestelle, per il quale è vicecapogruppo a Palazzo Madama e membro della Commissione Giustizia del Senato, per le ragioni del “No”
Avvocato Gianpaolo Catanzariti, prima di parlare dei quesiti: non crede che tra i fautori del “no” si annidi un possente, tacito partito dell’astensione? Complessivamente parlando, come classe politica: ma non vi siete stancati di questa deriva? Non sarebbe il caso di munirsi di un senso civico vero, che porti “sempre e comunque” alle urne, a qualsiasi appuntamento, elettivo o referendario che sia?
«Sì, sicuramente l’osservazione è molto corretta. Potremmo fare una battuta: speriamo di non stancarci mai!, perché nel momento in cui ci stancassimo di coinvolgere i cittadini alla partecipazione politica e a esprimere la loro posizione, questo potrebbe significare che abbiamo perso la battaglia per la Democrazia e che viriamo verso un regime autoritario in piena regola…».
Quorum, presidio che è tempo di scardinare
Come in ogni quesito referendario, qui ci sono intere forze politiche, inclusi alcuni partiti “a vocazione maggioritaria” nel Paese, completamente assenti nel dibattito sui temi referendari.
«Questo fa il paio, probabilmente, col livello complessivamente poco qualificato della nostra classe politica. Il problema se lo dovrebbero porre i partiti, ma in realtà oggi i partiti sono lontani anni-luce da ciò che dovrebbero essere… E questo si riflette anche in un profondo scollamento con la realtà. Poi però voglio anche dire un’altra cosa: nell’epoca che stiamo vivendo, forse sarebbe pure il caso di ripensare…»
…Di ripensare i meccanismi referendari?
«Ma guardi, vado sùbito al sodo: la cosa alla quale mettere mano, visti i tempi, credo sia l’elemento che fa fallire quasi tutti i referendum. Cioè il quorum. Portare alle urne il 50% più uno degli aventi diritto al voto, del corpo elettorale, era una soglia che aveva un senso, perché era stata pensata in un contesto di grande partecipazione alle scelte democratiche. Anche perché i partiti politici erano pienamente radicati nella società. Oggi, con un dibattito politico asfittico, un ruolo dei partiti oggettivamente del tutto assente, altro che “traino della società”…, e con un livello medio di tutti i parlamentari italiani davvero scadente, questo tipo di soglia con ogni probabilità non ha più senso. E del resto, ci sono anche proposte di revisione dei meccanismi referendari che vanno in questa direzione, benché non siano mai state discusse. Non solo: al di là della partecipazione ai comizi elettorali, mi domando se non sia il caso di ripensare al ruolo del cittadino nel suo complesso, in termini di partecipazione. Quello della cittadinanza attiva è un tema complesso. Lancio una sola provocazione, guardando all’elettorato passivo: perché consentire che addirittura le sorti del Paese siano talora nelle mani di chi non ha mai gestito nulla sul piano politico e poi si ritrova nelle “stanze dei bottoni” soltanto perché detentore di determinati “pacchetti” di voti?».
Tacitamente, sul banco degli imputati c’è il ruolo del Parlamento…
Adesso abbiamo davanti cinque quesiti referendari, e secondo molti osservatori si sarebbero potuti evitare tutt’e cinque manovrando adeguatamente la leva legislativa. Posto che sia vero, perché allora non s’è fatto?
«Ma la questione è il ruolo stesso del Parlamento, che dovrebbe incarnare il potere legislativo ma poi non assolve a questo compito. Talmente che, di fatto, per la maggior parte oggi chi “fa le leggi” in realtà è il Governo, mediante una decretazione più che prolifica. Ecco allora che a maggior ragione può, forse “deve” ritagliarsi un ruolo significativo l’attivismo referendario: in parte, perché no?, proprio di supplenza del potere legislativo che il Parlamento esercita in modo carente. Un paradosso, se vogliamo, considerando che in Italia la facoltà di proporre referendum abrogativi in realtà nasce come contrappeso, come limitazione al potere parlamentare. Era un “limite”, come diceva Costantino Mortati. Introdurre un referendum propositivo? Potrebbe essere un’idea, ma forse determinando un testo da sottoporre al successivo vaglio delle Camere».
La “Cartabia”, si dice, avrebbe potuto comunque superare questi referendum in tema di Giustizia…
«Ricordo solo un passaggio: a fine anni Settanta, dopo leggi con cui si voleva ‘ridimensionare’ gli esiti degli storici referendum sul divorzio e sull’aborto, la Corte costituzionale chiarì in modo definitivo che, se si vuol sostituire un esito referendario con un testo normativo, lo si può fare solo se la nuova legge è in senso più radicale rispetto alla modifica introdotta col referendum. I principi costituzionali insomma non guardano con favore a meccanismi “truffaldini” per bypassare la volontà popolare su questioni d’interesse generale».
«Troppi amministratori sospesi poi risultano innocenti»
Ma andiamo ai quesiti. È sicuro che la “legge Severino” ha avuto un contesto, un humus sbagliato? Anche a fronte d’ipotesi di reato di notevole gravità, anche dopo una condanna in primo grado di giudizio è preferibile lasciare “in sella” gli amministratori pubblici?
«Dalla Lombardia al Trentino Alto Adige, c’è una grande mole d’amministratori pubblici in tutt’Italia, non solo in Calabria o in Sicilia, che imbattendosi nelle maglie della “Severino” sono stati sospesi ma poi pienamente riabilitati. Chiaro, poi, che la normativa sconta vizi d’origine che poi si sono appalesati nell’area calabrese e siciliana con applicazioni anche clamorose. Altrettanto chiaro, però, che il “decreto Severino” nasce fondamentalmente per ragioni politiche precise: doveva essere utilizzato come ‘clava’ per abbattere Silvio Berlusconi. E poi, la “Severino” nasce da un forte clamore mediatico fondato sull’indice della percezione della corruzione, secondo l’agenzia Transparent. Ma i dati di realtà restituivano un altro quadro: le statistiche Istat, per esempio, ci dicono che sulla corruzione reale l’Italia sta addirittura dietro la Germania. Soprattutto, le sentenze di prima istanza sono quasi sempre seguite dalle assoluzioni in secondo e terzo grado di giudizio: e le statistiche, i dati “veri” sono quasi ‘bulgari’, in termini di costante ribaltamento del quadro prospettato in primo grado».
Meglio adottare altre misure?
«Mi pare chiaro che sarebbe assai preferibile fare ricorso ad altre misure, rispetto all’interdizione temporanea dai pubblici uffici che crea un vuoto democratico: oltre all’amministratore messo “fuori gioco”, c’è un chiaro danno a una comunità che dev’essere amministrata. E che oltretutto, prima rimane per 18 mesi senza quell’amministratore, e poi magari dopo 18 mesi e un giorno se lo ritrova nuovamente al timone, come nulla fosse mai accaduto. Bisogna ignorare i dieci, cento casi in cui l’amministratore condannato in primo grado è stato poi condannato anche in via definitiva? No, questi casi ci sono stati; ma se questi sono stati cento, ce ne sono stati duemila o ventimila in cui la condanna è stata ribaltata. Questo è il caso grave. Senza contare che esiste una presunzione di non-colpevolezza da rispettare sempre».
«Giustizia, il suo malfunzionamento non si elimina neppure con la vittoria del “Sì” in tutt’e cinque i referendum»
Si può dire qualcosa di analogo per il numero di firme a supporto di una candidatura al Csm?
«Guardando al dettaglio in sé, potrebbe sembrare una questione irrilevante. Ma è ovvio che il tema attiene al modo in cui sono decise e sostenute queste candidature, alle correnti interne alla magistratura».
Ma le ragioni reali delle distorsioni verosimilmente stanno altrove, non nel micro-meccanismo oggetto di referendum. O no?
«A questa domanda voglio rispondere con una puntualizzazione di fondo. Ma se anche i referendum fossero validati dal quorum e in tutt’e cinque i casi vincessero i “Sì”, non è che la vittoria referendaria eliminerebbe il malfunzionamento della Giustizia… Il “caso Palamara”? Ma il Sistema non era “di Palamara”, era dell’intera magistratura, anche se indubbiamente la vicenda dell’ex presidente dell’Anm in qualche modo ha ‘lanciato’ questa tornata referendaria».
Neanche per il ‘caso Tortora’, referendum solo sulla Giustizia
Quanto è anomala una tornata referendaria esclusivamente in materia di Giustizia? Quanto è complicata, soprattutto, la mission di centrare il quorum dei votanti?
«Il raggiungimento del quorum non è assolutamente all’orizzonte, anche se oggi come oggi tutto può accadere. Poi magari le urne ci restituiranno un quadro completamente diverso. Di sicuro, la partecipazione degli italiani a questo referendum sulla Giustizia, in un quadro in cui a giugno si va a mare, l’attenzione è monopolizzata dalla guerra russo-ucraina, ognuno ha problemi anche in relazione alla crisi economica, il dibattito sui temi referendari è stato praticamente zero è comunque importante. Certo poi una cosa devo dirla: mai a una tornata referendaria s’è votato esclusivamente sulla Giustizia. Mai. Persino ai tempi del ‘caso Tortora’, il quesito era posto fra altri quesiti referendari su temi ben distanti, che nulla avevano a che fare con la Giustizia; e questo risultato è stato determinato anche dalla bocciatura del quesito sull’eutanasia. Per cui: l’esito delle urne, in questo caso, è un dato di cui dovrebbe assolutamente tener conto il Parlamento che verrà, perché al di là di chi è coinvolto o meno personalmente in un procedimento l’intero capitolo-Giustizia è diventato un tema di profondo deficit democratico».