Dal poeta Enrico De Lea al critico Vincenzo Bonaventura, sono in tanti a ricordare lo chansonnier morto ieri
MESSINA – Oggi lo ricordano in tanti. Il giorno dopo la morte dell’artista Franco Lavigna, all’anagrafe Puglisi, sono in molti sui social a lamentare la poca attenzione che Messina riserva ai suoi artisti. Per il poeta Enrico De Lea, “Lavigna era il Brassens dello Stretto”. Uno dei primi a ricordarlo è stato l’attivista Saro Visicaro.
La tradizione popolare siciliana e, nello stesso tempo, la tendenza a rielaborare suoni e atmosfere internazionali: risulta questa una chiave per comprendere l’ispirazione del musicista e cantante, che amava Castanea e le sue radici. Aveva fondato il gruppo messinese “I cardinali” ed era un punto fermo di tante feste dell’Unità. Il locale e la vocazione musicale internazionale si fondevano in lui.
“Autore di blues e chansonnier siciliano”
Per il giornalista e critico Vincenzo Bonaventura, il cantastorie (nella foto di Alessandro Magnisi, dalla sua pagina Fb, in uno scatto del 2015 alla casa discografica T Records) meritava maggiore attenzione, come scrive su Facebook: “Cosa abbiamo fatto per lui? Avremmo potuto fare di più? Io non mi assolvo e non mi condanno, toccherà a lui decidere, nella parte di universo dove è andato a cantare e suonare. Era facile elogiare l’artista, la sua vocazione tra chansonnier siciliano e autore-esecutore di blues. A chi se ne intende anche solo un po’ non sfuggiva il valore della sua voce roca, la capacità di fare poesia in musica (penso a “Cca l’aria è umida”), la sensibilità musicale (cito “Love Blues”), l’ironia intelligente (da questo punto di vista “Beddu” è un autentico capolavoro). Li trovate tutti su youtube, andate a sentirlo, specie chi non lo conosceva”.
“Ignorato dalle istituzioni ma indomito: ecco chi era Lavigna”
Il giornalista non nasconde pure le asperità del carattere di Lavigna ma precisa: “L’ho sentito esibirsi e so di cosa parlo quando dico artista. Si toccava con mano quello che Franco avrebbe potuto essere, uno chansonnier-blues di primo piano, almeno in campo nazionale. Stanco di chiedere (anche alle cosiddette istituzioni, quelle che si dovrebbero mobilitare in questi casi e che invece spiccano per sordità assoluta) e orgoglioso di essere, si era rifugiato a Castanea. E, in un certo senso, era diventato un rifugio anche lo scrivere in siciliano”. Non a caso, negli anni, erano tante le iniziative a cui aveva partecipato pure per difendere il dialetto nella musica.
Aggiunge Bonaventura: “Parliamo di una lingua, s’intende, nobilitata da lui e da tanti altri artisti, ma vorrei intendere qui “rifugio” come qualcosa che nasceva prima per sé che per gli altri. Non ne sono sicuro, ma questa è stata la mia impressione quando l’ho incontrato per l’ultima volta, ormai tanti anni fa, negli anni in cui ero tornato a Messina. Era stanco e incompreso, ma indomito, come sempre”.