"Di rave party non m'intendo, di teatri sì: condannerei chi li chiude e non chi li occupa"

“Di rave party non m’intendo, di teatri sì: condannerei chi li chiude e non chi li occupa”

Redazione

“Di rave party non m’intendo, di teatri sì: condannerei chi li chiude e non chi li occupa”

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mercoledì 02 Novembre 2022 - 11:00

Mentrre s'accende il dibattito sul decreto Meloni, l'artista messinese Cristiana Minasi avvia una riflessione

Il duo Carullo-Minasi fa parte delle non poche eccellenze artisrtiche teatrali messinesi. Il progetto “La scuola del teatro, per una grammatica dell’immaginazione”, vincitore del Bando Periferie promosso dal Mibact e dal Comune di Messina, sta proseguendo alla scuola “Passamonte” a Gravitelli. Nel frattempo, Cristiana Minasi (nella foto con la regista e drammaturga Emma Dante) interviene sulla sua pagina Facebook traendo spunto dal tema attuale del decreto del governo Meloni su ordine pubblico e raduni, a partire dallo sgombero del rave party a Modena. Un’occasone per riflettere sugli spazi di cui riappropriarci, beni comuni ed essenziali, legalità e luoghi chiusi e negati, a Messina e ovunque.

Da un punto di vista più militante, sui fermenti di questi anni c’è anche un romanzo, tra occupazioni e impegno, “Compagni”, scritto da Eleonora Corace e Matilde Orlando.

La riflessione di Cristiana Minasi

“Non ho mai partecipato a un rave, ma ho dormito e partecipato a vario titolo alle attività proposte per il Valle occupato. Bisognerebbe condannare chi i teatri li ha chiusi e sbarrati, non chi ci ha fatto opere di cura plurale e partecipata. Bisognerebbe istituire il reato del tempo e delle occasioni relazionali perdute.

Il “Pinelli” occupato, le macerie dell’ax Teatro in Fiera e il mare di Messina che sta a guardare

Così come a Roma il Valle, a Messina il Pinelli occupato. Fa ridere, ma il Valle precipita e nessuno se ne accorge, nella malinconia degli stucchi che piangono soli la loro rovina e il Pinelli (ex Teatro in Fiera) è stato raso al suolo, dopo averlo murato per anni. Le macerie sono lì, ora accompagnate da una deriva di piante che ne stanno mangiando le sofferenze. Il mare sta a guardare.

Malinconia. Erano tempi incredibili, in cui si pensava ancora di potere modificare il mondo. Se per il Valle si è ragionato su cosa o meno potesse essere un bene comune, in pandemia ci si è interrogati su cosa fosse un bene essenziale. Categorie giuridiche che rispondono a possibili prospettive di comunità, fatte di partecipazione, rischio e visione. E, dunque, possiamo riaffermare con certezza che «qualsiasi cosa può essere un bene comune», poiché «non si tratta di una categoria merceologica (un oggetto), ma una condizione relazionale immateriale fra il bene e chi gode delle sue utilità» (Ugo Mattei).

Cosa che il teatro rivela da sempre, soprattutto nei momenti di crisi, in quanto arte dell’osservare ma anche della comunicazione che, restituita alla sua dimensione etimologica, è cum/munis, ovvero l’arte di mettere insieme i reciproci doni”.

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