"Il sublime della città non è negli edifici ma nella nostalgica rievocazione dei cuori". Mentre l'immagine di Messina è quella dell'incuria c'è chi, tra giovani, non vuol andar via ed invita a rinsaldare quel legame tra terra e mare che nel passato ha portato alla realizzazione di grandi opere. Monica Marchese ha dedicato la sua tesi di laurea all'incontro tra sublime ed urbanistica
Tra abbandono, incuria, cementificazione, non riusciamo più a guardare Messina con il cuore, con gli occhi dell’anima. Non riusciamo più a vederne quei tratti di nascosta bellezza che pure in passato hanno ispirato artisti e intellettuali. O che, senza bisogno d’andar lontano, chi lascia questa terra porta con sé insieme alla nostalgia ed ai rimpianti.
A guardare quella “sublime bellezza” che fa di Messina una realtà unica, ci ha pensato una studentessa, Monica Marchese,che ha dedicato la sua tesi di laurea alla facoltà di Scienze cognitive, psicologiche, pedagogiche e studi culturali a queste tematiche: “Il sublime e la percezione estetica della città”.
La vediamo talmente sciatta e abbandonata, la nostra amata Messina, che non riusciamo più a scorgere quella scintilla che invece Monica Marchese invita a riaccendere, perché lei, come tantissimi giovani, non vuole andar via, vuol sottrarsi ad un destino di emigrazione di cervelli, braccia ed energie, che sembra quasi ineluttabile. La tesi unisce due termini apparentemente distanti, sublime e urbanistica, e analizza come nel tempo e nello spazio possano invece abbracciarsi.
“I nostri grandi artisti ed intellettuali del passato hanno avvertito questo fortissimo legame terra-mare- spiega- ma oggi lo stiamo perdendo. Ed invece io ho voluto ripercorrere quella visione, perché amo profondamente Messina e vorrei che i turisti imparassero ad apprezzarla ed a scoprirne tutta la bellezza”.
Nel lavoro di Monica Marchese c’è una ricostruzione storica,del rapporto tra la bellezza e l’architettura, ma anche un parallelismo geografico che mette a confronto Messina con Parigi e Berlino.
“ Si può creare un’omologazione tra poesia e costruzione, come con la percezione del bello che si ritrova nella lettura di un testo o nella visione di un paesaggio urbano- si legge nella tesi- Il sublime della città non è negli edifici ma nella nostalgica rievocazione dei cuori. Le città moderne non hanno cuore poiché «la città non è mai solo un luogo fisico. È soprattutto una forma simbolica, che rispecchia la visione del mondo dei suoi abitanti. Le città contemporanee sono l’immagine spaziale della speculazione immobiliare, la finanza tradotta in edilizia. Oggi si valuta in termini di economia,igiene, traffico,non si considerano elementi che implicano valori di tipo religioso o culturale. Le città così fatte non hanno anima, sono amorfe, piatte, banalizzate: nessuno a distanza di secoli, riuscirebbe a ritrovarvi la memoria di un passato ricco di risonanze interiori, capace di suggerire effetti di sublimità”.
La Marchese nei capitoli conclusivi ripercorre la storia di Messina attingendo ad opere di Nicola Aricò, come Illimite Peloro e Filippo Juvarra.
“Ne viene fuori una visione di Messina come città terracquea: Capo Peloro e la falce che ne consegue nascono da uno strappo tellurico e si pongono argine terrestre alla predominanza del mare. La storia urbana della città è condizionata da questo rapporto stretto tra mare e terra in un continuo sovrapporsi dell’uno sull’altra e in una difesa, non sempre salda, dello spazio vivibile da parte dell’uomo. La città tuttavia lanciata contro il mare, ha avuto slanci notevoli di arte e di letteratura proprio per l’immagine affascinante che proponeva agli intellettuali di varie età.
Prima metropoli mediterranea, poi città di difficile passaggio come oggi siamo costretti a definirla: «da metà Cinquecento a metà Seicento Messina è palestra di esperienze progettuali di notevole importanza», nel Settecento sarà Filippo Juvarra a definirne il piano urbanistico, in un visione chiara del rapporto che la città ha con il mare. Capo Peloro domina un confine e un “illimite”. Esso definito canale di Messina, rappresenta la continuità geologica tra Calabria e Sicilia interrotta da uno squarcio tettonico; successivamente il Faro posto dai Romani per segnalare la difficoltà del passaggio, divenne il toponimo che designò il luogo geografico tra i due mari. Nel Cinquecento la città si identifica come porto-promontorio-faro. Montorsoli aveva percepito come Capo Peloro potesse rappresentare un “illimite” ed il sublime di quell’illimite aveva provato a scrivere nel suo fonte di Nettuno. In quest’opera il grande artista voleva «far rivivere il Mito classico della Natura, lontano dalle ardite magniloquenze della politica urbanocentrica». L’intuizione dello scultore è evidente: Messina deve essere intesa come centro dell’intera area dello Stretto, come coniugazione di terra e mare. Dalla lanterna di San Ranieri verso Occidente, attraverso il Nettuno la città era destinata a espandersi verso l’illimite del Peloro. Tra fine Seicento e i primi del Settecento l’assimilazione della continuità terracquea diventa non solo territoriale ma architettonica, viene realizzata da Juvarra che propone il tema del continuum tra il Peloro e la falce, dal Palazzo Reale fino al Teatro Marittimo di Grotte; proprio qui intorno alla Chiesa di Santa Maria della Grotta pone come centro di questa visione talasso-urbica un’esedra «il cui duplice ruolo è l’esaltazione di questa cerniera spaziale tra la falce e il Peloro. Ma dopo il 1908 si perde la memoria urbana. E la riedificazione priva di radici e sciatta ne è una testimonianza”.
Fin qui la tesi di Monica Marchese, che nella prima parte ha dedicato spazi alla Parigi del XIX caratterizzata da teatri, musei, parchi, caffè letterari, e alla Berlino delle periferie. Oggi, a distanza di un secolo,quel che vediamo a Messina è ben altro, figlio della speculazione edilizia, nipote della cementificazione. Lo stesso Capo Peloro è finito al centro di una decennale battaglia tra due visioni opposte anche del rapporto stesso tra la città e il mare,o la natura. Non c’è un punto di sintesi, non c’è una strategia, un continuum.
“Mi piaceva l’idea di raccontare il sublime attraverso la visione estetica ed urbanistica della città”, commenta la neo laureata, che nel suo futuro vede la speranza di poter lavorare qui per riuscire a far guardare i visitatori con gli occhi di chi questa disgraziata città la guardava nei secoli passati.
Certo, se pensiamo che i turisti non possono raggiungere il Museo se non con il teletrasporto o che per raggiungere i siti culturali, artistici,monumentali, devono passare tra rifiuti, ci scoraggiamo. Se pensiamo che la Galleria Vittorio Emanuele è ridotta un letamaio,piazza Duomo sembra attraversata dai barbari, allora viene voglia di arrendersi.
Ma Monica Marchese dalla sua ha la speranza dei 20 anni e la voglia di continuare a crederci.
Rosaria Brancato