Estorsioni, violenze subite e fatte subire: da Milano a Messina, un insegnante della scuola media racconta la sua esperienza
Bullismo come condotta che «esiste da sempre». Con il cyberbullismo che «aggiunge ulteriori strumenti e ciò facendo modifica, e aggrava, il fenomeno». Parola di docente con quarant’anni di esperienza nelle aule di tutta Italia e – soprattutto – nelle aule della superiore di primo grado, la scuola media, che è la più “colpita”. Perché «gli alunni entrano bambini, ancora alle prese con i giocattoli, ed escono adolescenti, con tutt’altri interessi».
Docente che preferisce rimanere anonimo. Per tutelare i suoi alunni, la scuola messinese in cui opera, visto che «i pregiudizi ci mettono poco a “condannare” un’intera scolaresca», e non già per tutelare se stesso, «anche se è vero che l’insegnante troppo spesso si ritrova da solo a fronteggiare famiglie che hanno la cultura della prepotenza, della sopraffazione, e l’hanno inculcata ai loro figli».
Ed eccoci dunque a raccogliere la sua voce, dopo aver ascoltato le forze dell’ordine, altri educatori, il mondo del volontariato.
E quello che dice questo docente è molto semplice. «Quando uno sta annegando – dice – è inutile consigliargli di muovere meglio le braccia. Bisogna andare a salvarlo e riportarlo a riva. I ragazzi sono in questa situazione. Da soli non riescono a uscirne. Il compito ricade – senza alcun dubbio – su noi adulti».
Una storia di estorsione
E per sottolineare come il bullismo appartenga a diversi contesti, la prima storia che racconta è quella che ha vissuto a Milano, decenni fa.
«Allora è scattata una vera e propria trappola. Il bullo aveva preso di mira un ragazzino tra i più deboli. Lo aveva invitato, con grande insistenza, ad un giro di prova sulla bicicletta nuova che aveva appena ricevuto in regalo. Solo che aveva rotto il pedale della bicicletta. E appena la vittima l’aveva inforcata, la bicicletta aveva ceduto. “Tutti hanno visto che mi hai rotto la bicicletta. Se non vuoi che lo dica a tuo papà devi pagarmi”. Il ragazzino bullizzato aveva finito per dargli ogni settimana la sua paghetta, e le merendine, e tutto quello che il bullo gli chiedeva. In una spirale sempre più grave. Che lo aveva letteralmente distrutto».
In quel caso gli adulti avevano intuito ed erano intervenuti. Ci fu una segnalazione alla Questura. Ci furono interventi sulle due famiglie. Il bullo cambiò scuola e il bullizzato tornò a respirare.
«Ma non si può dire che quella fu la soluzione perfetta. Tutt’altro. Oltre a risolvere il singolo caso, anche se naturalmente è necessario, bisogna andare a fondo, capire le ragioni del comportamento sia del bullo sia del bullizzato. Altrimenti si è solo “trasferito” il problema».
Una storia di violenza
Anche perché il bullismo è anzitutto una questione culturale. Che appartenga ad un contesto deprivato o super “accessoriato”, il potenziale bullo «cresce nella cultura del “più forte”, della “competizione estrema”, della “obbligatorietà” di dimostrare il proprio valore. A qualsiasi costo, in qualsiasi modo. E quando non riesce a corrispondere a queste aspettative, è spesso a sua volta “bullizzato” in famiglia, nella sua comunità di riferimento».
Da Milano a Messina il passo è – nella memoria del docente – molto breve. Ricorda infatti un ragazzino «tutt’altro che un angelo», che ne combinava a scuola di tutti i colori, comprese molestie alle compagnette, insulti e offese costanti ai compagni. «La sua condotta sembrava peggiorare di giorno in giorno. Poi, però, un insegnante gli vide addosso segni di percosse, lividi, abrasioni, cicatrici. Segni antichi e recenti. Il ragazzino aveva un padre che lo malmenava per insegnargli l’educazione. Era l’unico metodo che conosceva. E più il ragazzo combinava guai, più il padre lo picchiava. Più il padre lo picchiava, più il ragazzino non trovava modo di sfogarsi se non prendendosela con chi era più debole di lui. Un circolo vizioso e terribile».
Anche in questo caso gli adulti fecero la loro parte. Ancora una volta ci fu una segnalazione alla Questura – perché la segnalazione «significa anzitutto far fare le indagini a chi sa farle». E si parlò con il padre violento che «agiva in buona fede, era convinto di fare il bene del figlio» e, infatti, ad un certo punto ammise di “aver esagerato”. Le botte “domestiche” si ridussero, in quantità e in intensità. Il ragazzino pian piano «tornò a essere presente alle attività scolastiche», sempre meno “bullo” e sempre più studente.
Sotto i riflettori o nascosti nel web
«Vede, c’è una grande differenza tra bullo e cyberbullo. Il bullo si fa vedere. Non avrebbe senso fare il bullo se gli altri non lo sapessero. Il cyberbullo invece si nasconde ”dentro” il web».
«Torniamo alla responsabilità degli adulti. In primis la famiglia. I genitori non ascoltano il grido di allarme dei loro figli, che è un grido complesso, che bisogna indagare, perché non c’è un adolescente che ti dice le cose che vive e che prova direttamente, anche perché spesso non ne è consapevole appieno. Anziché ascoltare, indagare, sforzarsi di capire, magari i genitori comprano un cellulare. E demandano alla comunità digitale parte dei loro doveri. Ecco, questa cosa non funziona. Internet è uno strumento utilissimo, ma per prima cosa bisogna insegnare a utilizzarlo. E in ogni caso uno strumento non può in alcun modo sostituire la relazione umana, soprattutto quella familiare».
E la scuola, dal canto suo? «Qui c’è un altro problema. Il docente sta con gli alunni un certo numero di ore al giorno, decisamente molte meno di quelle che i ragazzi trascorrono in famiglia e con gli amici. E se il docente si ritrova da solo a criticare certi comportamenti, la sua voce non avrà mai forza sufficiente a far cambiare le cose. Allo stesso tempo, mi duole dirlo, è il docente che poi si ritrova faccia a faccia magari con genitori violenti o di malaffare che lo aspettano fuori dalla scuola per “consigliargli” di non criticare i loro figli. Una condizione oggettivamente difficile, a fronte di un ruolo sociale assegnato all’insegnante che è sempre più indebolito».
E anche se è vero che ormai ci sono lo psicologo di scuola, i colloqui, una serie di attività di sensibilizzazione ed educazione, corsi di formazione e mille altre cose, è anche vero che «con tutta evidenza queste soluzioni non sono sufficienti, non sono adeguate».
Basti pensare ai casi di cronaca più recenti, dalla rissa a Villa Dante a quella sul tram, per capire che qualcosa non sta funzionando a dovere.
Insegnare la convivenza civile
La soluzione? «Io non ho una soluzione da proporre. Ho una urgenza, un sentimento forte che avverto da tempo. Penso infatti che bisogna agire culturalmente, anzitutto sulle famiglie. Insistere, insistere e insistere affinché i genitori facciano i genitori e non gli amici dei loro figli, affinché assumano tutto l’onere, il peso, la responsabilità di far crescere al meglio i giovani».
Bisognerebbe anche – da insegnanti di qualsiasi materia – «fare il possibile e l’impossibile per far crescere, in conoscenza e maturità, proprio quelli che sono più “indietro”. È un dovere morale, anche perché proprio nei fallimenti scolastici si annida il germe del bullismo. Il bullo è spesso una persona che non riesce a farsi valere con lo studio».
Infine, «così come si insegna l’italiano o la storia o la matematica, così come durante le lezioni di educazione civica si insegna la Costituzione, bisognerebbe istituire una cattedra, in ogni grado della scuola, dedicata alla convivenza civile. Bisognerebbe insegnarla, la convivenza civile, e bisognerebbe che questa disciplina avesse tutta l’importanza che merita, ovvero tantissima».
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