Nel lavoro firmato dal messinese Paride Acacia la cronaca immaginaria di una città morta di provincialismo
Quattro becchine attendono ai preparativi del 2 novembre al camposanto comunale di Messina. L’arrivo dei vivi si rivela fattore destabilizzante, un’indebita intrusione in un luogo scandito da regole e dinamiche singolari: due mondi, seppur strettamente in relazione, impossibilitati a comunicare al di là di fedi, credenze o scaramanzie. Si alternano così, tra un lavoro di vanga e l’altro, il ricordo di Giacomino, democratico piangimorti, o quello del celebrato attore Martino Zolfo (vaghe rassomiglianze con Tano Cimarosa), la cui salma è scandalosamente abbandonata al deposito. Ad incombere sui fitti e grotteschi dialoghi delle becchine fantasmi veri o presunti, rimpianti di esistenze mal calibrate ed una catastrofe imminente: dalla tragedia di Giampilieri la catarsi che illumina il lirismo finale.
Riveduto e corretto dopo la prima della scorsa stagione all’interno della rassegna “Atto unico”, Camposanto mon amour di Paride Acacia è carnale sarabanda di ispirazioni, cronaca immaginaria di una città morta di provincialismo. In scena al Vittorio Emanuele un bizzarro giudizio universale in cui l’autore messinese assegna condanne e punizioni ai mediocri personaggi che affollano i luoghi del potere, beati nella sciatteria, gaudenti nel fango. Un’opera fortemente politica, dunque, mimetizzata in un carrozzone quasi circense in cui confluiscono citazioni dalla Yourcenar (L’opera al nero), da Cassavetes (La sera della prima) o da Aldrich (Che fine ha fatto Baby Jane?), riferimenti spesso subliminali in una drammaturgia che predilige la dispersione alla compattezza, il fragore alla contemplazione. L’insistito legame con l’alchimia (il teatro come pietra filosofale per una città cupa come il piombo?) nobilita un lavoro che trova nei momenti musicali il proprio inossidabile punto di forza: Acacia rinuncia parzialmente all’attitudine rock per proiettarsi dalle parti di Garinei e Giovannini (è il caso dell’orecchiabile title-track), rivisitati tra synth e suggestioni moderniste. Decisivo il ruolo svolto dalle note di Massimo Pino (autore dei brani con lo stesso regista), Peppe Pullia e Simona Vita, perfetto accompagnamento alle efficaci progressioni di Milena Bartolone, Gabriella Cacia, Francesca Gambino, Elvira Ghirlanda e Laura Giannone, un cast interamente al femminile che riesce a suggerire una prospettiva di fertilità ad una terra desolata.
Da incendiario a pompiere. Proprio in un finale eccessivamente saturo di significati si riscontra l’unica debolezza di un lavoro talmente autosufficiente da potersi facilmente sottrarre da intenti moralistici. Una lunga marcia a ritmo di tamburo (evocata da una delle coreografie firmate da Sarah Lanza) si scioglie in un inno di rinascita forse inopportuno: ancora indistinguibile la differenza tra vivi e morti.
Domenico Colosi