Se il mito classico incrocia la tematica dei migranti
Anneo Seneca ci ha lasciato uno script per il teatro che, se muove i passi dal mito greco trasfuso nella tragedia euripidea, converge ben presto verso un’essenza più intimista e indagatrice dei moti del cuore. Filippo Amoroso ha operato l’ottimo adattamento della mise en scene che, diretta magistralmente da Walter Pagliaro, è stata rappresentata fino al 4 giugno dal Teatro dei due Mari – in questo incipit dell’omonimo Festival, giunto al suo XVII ciclo – presso lo splendido teatro greco–romano di Tindari; questa Medea è stata anche co-prodotta dal Teatro dei due Mari con il Teatro Olimpico di Vicenza, ove andrà prossimamente in scena.
Micaela Esdra è stata una perfetta antieroina, la barbara per eccellenza, la diversa e irredimibile straniera, connotata da un’ardente femminilità, in uno con le indiscusse sue capacità nel magico. Medea non si lascia “inquadrare” e con il suo comportamento passato alla storia come simbolo di ferocia e follia, mette in discussione l’ordine giuridico–sociale precostituito. Lo spettacolo si è anche avvalso delle rivisitazioni più recenti, di Grillparzer, Lenormand, Jahnnn, Alvaro, e Pasolini, oltreché della mitica ricostruzione di Corneille, ma ha apposto l’accento soprattutto sull’aspetto rigido dell’accoglienza degli stranieri, così tragicamente attuale, che esigerebbe da chi è ospitato la totale e perfetta conformità alle regole del territorio ospitante. E così per Medea i cittadini che assumono atteggiamenti arroganti nei confronti dei migranti e/o dei richiedenti asilo si rendono odiosi. Luciano Virgilio ha ben reso l’austero Creonte, re di Corinto e padre di Creusa, futura mancata nuova sposa, dall’infelice destino, di Giasone, interpretato magistralmente da Blas Roca Rey, Marina Zanchi ha poi rappresentato, oltreché la nutrice, “il grillo parlante”, la coscienza di Medea. Le musiche di Germano Mazzocchetti hanno sottolineato sapientemente, con l’esecuzione dal vivo alla fisarmonica, i momenti essenziali dello spettacolo teatrale. I costumi di Annalisa Piero non sono apparsi invece ben caratterizzanti la figura di Medea; la rappresentazione si è avvalsa ancora dell’installazione scenica di Michele Cacciofera, sotto la direzione di Ilario Grieco, che non ha convinto del tutto per la contestualizzazione attualizzata di odierni arredi riferibili a un nosocomio o a un centro di accoglienza. I riferimenti alla spedizione degli Argonauti (e alla nave Argo) che Medea avrebbe tratto in salvo, preservando la stirpe greca, con tradimento dei propri valori di appartenente alla Colchide, giungendo a uccidere il proprio fratello per permettere a Giasone di rubare il vello d’oro, hanno reso la protagonista meno Menade e più tragicamente umana (non conducendoci però a giustificare il suo sacrificio della prole per distruggere il consorte fedifrago). Giasone non ha nulla dell’eroe, è un pavido, che si consegna al poter precostituito per mettersi in salvo, a costo di rinnegare la sua benefattrice che gli aveva sacrificato fin da giovanissima la sua stessa essenza. E così mano a mano siamo divenuti partecipi di quel qualcosa di terribile che si è agitato nella mente sconvolta di Medea, assistendo alla preparazione di delitti in sé stessi orrendi.
Micaela Esdra, in chiusura, è stata davvero sublime nella resa di un personaggio, quella della maga, nipote di Circe e imparentata con il Sole, che assurgerà a divinità, condotta come sarà sul carro trainato dai buoi nella volta celeste… quasi una sublimazione di chi non si piega, non si conforma e reagisce a ingiustizie e sopraffazioni.
Tosi Siragusa