MESSINA – Una tv accesa come sottofondo. Una donna indaffarata in casa. Ha fretta. Deve andare via ma qualcosa cattura la sua attenzione. Una notizia del telegiornale la blocca all’improvviso. Ecco il suo racconto: “A Palermo un uomo aveva accoltellato a morte l’ex convivente sotto gli occhi del loro bambino di due anni. L’ennesimo caso di femminicidio. Mi sono sentita mancare e mi sono accasciata sulla sedia, restando inebetita per un tempo indefinito. Un’altra donna uccisa perché si era ribellata a un amore malato e aveva cercato di proteggere sé stessa e suo figlio dalla violenza di chi avrebbe dovuto solo amarli… Un altro bambino rimasto orfano e costretto ad assistere a ciò che occhi umani non dovrebbero mai vedere…”. Giovanna Cardile, insegnante e dottoressa di ricerca messinese, ha raccontato la sua storia nel libro “Due vite in una – Storia di una rinascita”, scritto con Giovanna Sciacca e pubblicato nel 2013.
Quella notizia data alla tv la rimette in contatto con la sua ferita. Una bambina di cinque anni, nella Messina del 1985, che assiste alle violenze del padre nei confronti della madre. Una donna a cui era negata ogni libertà. Persino avere la patente era considerato un atto d’indipendenza da reprimere. Il tutto fino alla scelta, salvifica, di separarsi e porre fine a quelle quotidiane sevizie.
Ma un giorno, impossibile da dimenticare, il padre di Giovanna piombò in casa della madre e della nonna con un fucile da caccia. Davanti a suoi occhi, e a quelli del fratello, aprì il fuoco sulle due donne. Un trauma. Uno schock che avrebbe potuto rovinare per sempre la vita dei due bambini.
Scrive Giovanna nel libro: “Vedendo la nonna a terra, in una pozza di sangue, la mamma cacciò un urlo, a cui seguì un altro colpo di fucile, che la ferì senza ucciderla. Io avevo cinque anni. In quel momento non mi importava di morire, perché vivere senza la mamma, che era tutto per me, significava essere già morta. Così mi misi tra lei e mio padre. Volevo proteggerla. Lui non avrebbe avuto il coraggio di sparare ancora, non poteva averlo. Ma mi sbagliavo. Con violenza, mi scostò e finì ciò per cui si era presentato quella sera, mandando in frantumi anche la mia vita, che si sbriciolò in mille pezzi come un fragile oggetto di cristallo caduto a terra”.
Ma questa è anche la storia di una “rinascita”, come emerge dal libro. Una coppia si prenderà cura di Giovanna e di suo fratello, che aveva 7 anni. Adottandoli, consentirà loro di ritrovare gradualmente la serenità. Di scoprire che si può essere genitori al cento per cento, anche se non lo si è sul piano biologico.
Così lei riassume il primo impatto con loro: “Quell’uomo e quella donna erano lì per noi. Non solo per me o per mio fratello, ma per tutti e due. Erano a conoscenza della nostra storia, ed erano pronti ad offrire a entrambi amore e protezione. Pensavano che avevamo sofferto troppo per patire un’altra ingiusta separazione. Se fossimo stati d’accordo, potevamo provare a costruire insieme una vita serena. Guardai quell’uomo. Lui ricambiò il mio sguardo e mi sorrise. Sentii il mio cuore battere forte per l’emozione e mi fu chiaro che di quelle persone avrei potuto fidarmi. Come per incanto, si sciolse anche il nodo che mi stringeva la gola e lo stomaco come una morsa al pensiero di essere allontanata da mio fratello. Così come mi ero sentita rifiutata da coloro che avrebbero dovuto essermi vicini per vincoli di sangue, ora mi sentivo voluta e accolta da quei due estranei, che ci guardavano con occhi amorevoli”.
Nel libro, Giovanna racconta il legame profondo che si è creato con il padre adottivo, padre a tutti gli effetti. Suo unico padre. E il dolore per la sua morte. Lui è l’uomo che le ha trasmesso fiducia nel maschile, dopo l’esperienza dei primi cinque anni di vita con una persona che abusava della madre in tutti i modi. Certe ferite rimangono, anche se si possono prendere le contromisure per non rimanerne annientati. E i due fratelli hanno avuto la possibilità di godere, finalmente, di un contesto familiare sano.
Il padre, pediatra, e la madre, professoressa di matematica, anche lei morta da alcuni anni, hanno consentito a Giovanna Cardile di poter intraprendere la propria strada senza rimanere paralizzata dal passato. Così ha conseguito cinque lauree, compresa una in Psicologia clinica, e un dottorato di ricerca. Fa l’insegnante di sostegno, si è sposata ed è diventata madre di una bambina.
Da anni coltiva un sogno: “Quello d’aprire un Centro per i bambini vittime dei femminicidi. Io sono stata fortunata ma ci sono tanti minori che non vengono sostenuti dallo Stato. Spesso manca un percorso psicologico, ma anche di supporto economico, per chi perde tutto all’improvviso e in modo brutale. Oggi penso con riconoscenza alle mie due mamme e al mio unico padre, quello di cui porto il cognome. Un uomo che mi ha spronato a fare volontariato per farmi comprendere quanto, nonostante tutto, fossi fortunata”.
Aggiunge Giovanna Cardile: “Da volontaria, ho potuto toccare con mano le sofferenze di tante persone e capire che non potevo rimanere prigioniera del mio dolore. Un giorno, al corso Donne, politica e istituzioni, diretto dalla professoressa Antonella Cocchiara (nella foto in basso, n.d.r.), ho raccontato la mia storia e da lì è partito tutto: il libro e il desiderio di testimoniare che, grazie all’amore, si possono sconfiggere l’odio e il rancore di chi ti vuole sottomettere nel segno della violenza”.
Oggi cosa vorrebbe comunicare a chi si trova in condizioni analoghe a quelle della prima madre? “Di non subire mai e d’andarsene al primo schiaffo. Quando penso ai figli delle donne assassinate, istintivamente vorrei prenderli tutti con me. E vorrei che lo Stato li tutelasse davvero. Ad esempio, nei concorsi, non si tiene mai conto di questo tipo di vissuto”.
Ma che cosa racconterà a sua figlia? Precisa Giovanna: “La verità. Quando sarà più grande, le racconterò la mia storia e tutto quello che ho imparato. Già oggi le parlo delle sue due nonne materne e del nonno, spiegandole che sono in cielo. Ma sempre vicini a chi hanno amato. Dalla mia esperienza si può trarre una lezione fondamentale: nulla è perduto se prevalgono la cura, l’attenzione, l’affetto e la generosità. Non bisogna rassegnarsi mai”.