Una coproduzione Ente Autonomo Teatro di Messina e Teatro Stabile di Trieste La Contrada, che ha dato incipit all’attuale stagione teatrale del Vittorio Emanuele, e andrà in tour nei teatri italiani. Quarant’anni di carriera per il figlio d’arte Giampiero Ingrassia, che, sotto la ben condotta direzione di Nadia Baldi, indossa i panni del Monsù Gaston, vicino al Principe di Salina, un personaggio dalle molteplici sfaccettature, coprotagonista, unitamente a Tosca D’Aquino, interprete di una cuoca particolare, Teresa, pregna di segreti ingombranti di amorosa fattura.
E da un’idea di Simona Celi, un pochino consumata in verità, Roberto Cavosi ha messo in scena lo script attraverso il quale si dipana la brillante commedia, intrisa di ricatti, bisticci, ove la cifra di fondo non è solo l’ironia, che difatti lascia il posto sovente al sarcasmo, passando per un sano umorismo.
Così, ecco Teresa e lo Chef gareggiare per un grammo di attenzione e visibilità ai piani alti, e non solo a colpi di prelibatezze… La gelosia e l’invidia non consentono di risparmiarsi reciprocamente colpi bassi.
Scene di interni di cucine datati tardo Ottocento abbastanza realistiche di Luigi Ferrigno, costumi, come detto, d’effetto di Carlo Poggioli, musiche roboanti di Ivo Parlati. Lo spettacolo discreto, gradevole e divertente (per gli amanti del genere) – e infatti ha riscosso credito e applausi dal numerosissimo pubblico presente – a mio avviso non si è volutamente discostato da una pur riuscita parodia.
Voglio significare che, spesso, nelle mie riflessioni sulla cosiddetta servitù gattopardiana, me la sono rappresentata con fattezze, dialoghi e contesto di segno differente. Ci si sarebbe attesi, forse, un maggiore scandaglio, con focus sulle maniere dell’epoca, una rappresentazione più corale, ove, alcuni caratteri emergenti avrebbero dovuto muoversi entro una cornice consona al romanzo per eccellenza di riferimento, probabilmente troppo iconico e, dunque intoccabile, per trarne un qualsivoglia rimando. Operazione rischiosa, che proprio per la sua ambizione, reputo meritevole di plauso. Forse una mancata connessione così diretta avrebbe agevolato l’andazzo della rappresentazione, privandola dell’onere di un raffronto tanto impegnativo.
Se, sul piano drammaturgico, ho riscontrato tali criticità, ogni altro aspetto è apparso ragguardevole, a cominciare dalla resa attoriale, partendo da Giampiero Ingrassia, una indiscussa conferma, quale versatile attore teatrale, ma anche volto televisivo, quale conduttore e cantante oltrechè interprete, che ci inorgoglisce, passando per Tosca D’Aquino, assai convincente quale ex prostituta, tale Marianna, molto vicina nel ventennio pregresso all’esuberante Principe Fabrizio di Salina, tanto da generare con lui un pargolo, che ritroviamo nella piece con divisa d’ordinanza, mentre la madre si è riciclata nelle più rispettabili vesti di cuoca sopraffina, divenendo Teresa.
Anche le performances di Giancarlo Ratti, del nostro concittadino Tommaso D’Alia, così come degli altri interpreti Rossella Pugliese e Francesco Godina, questi ultimi, pur nell’indeterminatezza dei personaggi di riferimento, sono sembrati ben calibrati. I frequenti richiami a figure iconiche del grande affresco gattopardiano, Il Capitano, la fidanzata Angelica, figlia del benestante Calogero Pedara e di Donna Bastiana, di umilissima stirpe, il fido Confessore, la Principessa, e i sette figliuoli, ma in primis Don Fabrizio, di sicuro effetto, non sono stati, però, bastevoli a ricreare le suggestioni del capolavoro letterario del compianto Giuseppe Tomasi di Lampedusa, come il grandioso film, dalla omonima intitolazione, del celeberrimo Luchino Visconti (non preso però, giustamente, a modello in questa recensione).
In conclusione, nelle cucine di Palazzo Ponteleone, mentre si dà vita a quaranta sontuose portate, gli ingredienti, fra i quali spiccano ricotta e cannella, si mescolano a forti passioni, in quel mondo “di sotto” che non è mai stato parte dei fasti nobiliari, oramai in declino, quel regno dei gattopardi, che nel famoso ballo ai piani alti consuma i suoi ultimi sprazzi di vitalità, prima di cedere il passo alla borghesia del nascente Stato italiano.
Dalla riuscita serie britannica Downton Abbey, divenuta prodotto cinematografico eccellente, al pregevole movie Gosford Park di Robert Altman, ambientato negli anni 30, il confronto-scontro fra le diverse classi sociali in una stessa Residenza, ha sempre nutrito la commedia umana, sovente adombrandosi al tramonto di un’epoca, come nella pregiata piece in trattazione, pur con qualche limite evidenziato.