C’è una frase particolarmente significativa nel comizio di Cateno De Luca di domenica scorsa a Piazza Municipio. Ad un certo punto lui dice: “Io devo difendere la mia comunità”. Ecco, mentre tutti gli altri si occupano di un particolare, di un piccolo pezzo di società (un gruppo di lavoratori, il ruolo di consiglieri comunali, alcuni diritti), lui parla a tutti e riesce a costruire consenso intorno al suo ordine del discorso. C’è del populismo in questo? Certo, ma non c’è anche del corporativismo nell’occuparsi dell’interesse specifico di pochi quando questo impatta con la vita di tanti?
In una realtà completamente scompaginata, in un corpo sociale sfrangiato, frammentato, lo straniero di Fiumedinisi opera una ricomposizione, riesce a trovare le parole per far sentire molti parte di una cosa sola. Egli chiama a raccolta tutti intorno a sé e declina punto per punto, persona per persona, i responsabili di quel disastro che oggi Messina è. Lo fa con il suo lessico e con le sue modalità, entrambi espressioni di una cultura di destra, a tratti autoritaria, ma attenzione a definirlo “fascista”. Lo dico ai miei compagni. C’è il rischio che in molti vi diranno: “Ah sì? Allora forse bisogna essere fascisti per smuovere le cose”.
De Luca è il nuovo sindaco icona di questa città, che, a tutti gli effetti, è diventata un vero e proprio laboratorio politico, ma il suo discorso non è “fuffa”, è fortemente tecnico, una tecnica, però, che non diventa tecnicismo e che viene spiegata con parole semplici, accessibili, con quella battuta di spirito che alleggerisce la narrazione. De Luca non è solo un grande comunicatore, è anche uno che si fa un culo quanto una casa, lavora senza tregua e impone ritmi cui gli altri attori politici non sono abituati. Questo alla gente piace. Egli sta spianando le amministrazioni che lo hanno preceduto, quel che resta dei partiti, i dirigenti comunali, i sindacati confederali. Tutta roba per la quale, soprattutto in una città come Messina, non c’è da avere alcuna nostalgia.
Eppure, nella politica deluchiana i buchi ci sono. In primo luogo la logica aziendale che pensa di adattare all’amministrazione della cosa pubblica. Dappertutto sia stata applicata si è visto che non ha dato i risultati desiderati e, comunque, non è servita a salvare il welfare, ma a distruggerlo definitivamente. De Luca, inoltre, insiste sul fatto che il Comune è in dissesto, cita i documenti della Corte dei Conti nei quali il deficit strutturale appare conclamato. E, allora, perché non ne trae ancora le debite conseguenze? Il nodo politico è quello che riguarda i creditori. I piani di riequilibrio sono fatti per soddisfare proprio loro. Bisognerebbe avere il coraggio di dire che l’interesse dei creditori non è quello della città. E basterebbe scorrerne la lista per liberarsi dal senso di colpa. Ecco, la partita si giocherà, dunque, intorno al pacchetto di delibere che Cateno ha definito “Salva Messina”. Senza un pre-giudizio potrebbe essere l’occasione per un ragionamento politico che entri nel merito delle cose e faccia confrontare idee diverse di città, di comunità.
Gino Sturniolo