Una narrazione onirica tra presente e passato, uno stile poetico che permette l’incontro tra l’apollineo del reale e il dionisiaco del sogno, uno sguardo visionario che intreccia la tragedia greca con il surreale e il fantascientifico. Così si presenta il film “Gli Immortali”, della regista italo-finlandese Anne Riitta Ciccone.
Nata a Helsinki, da madre finlandese e padre messinese, è cresciuta a Messina per, poi, trasferirsi e studiare cinema a Roma, dove vive.
Esordisce alla regia nel 2000 con “Le Sciamane” e, da allora, la sua attività artistica si riempie di premi e successi. Tra i tanti, per farsi un’idea basta pensare al lungometraggio “L’amore di Màrja” del 2002, che fa incetta di numerosi premi tra cui il Globo d’oro della Stampa Estera come film Rivelazione, oppure “I’m – Infinita come lo spazio” del 2017, con il quale diviene la prima regista donna al mondo a realizzare un live action 3D. Omonimo è anche il romanzo nato come spin-off durante le stesure del film e selezionato al Premio Strega.
Il 20 giugno esce, invece, nei cinema l’ultima fatica di Ciccone, appunto “Gli immortali”, con protagonisti Gelsomina Pascucci e David Coco e la partecipazione di Maria Grazia Cucinotta.
Con “Gli Immortali”, la regista torna a casa. Il film, infatti, selezionato alla Festa del Cinema di Roma, sezione Freestyle, sarà presentato al pubblico messinese il 22 giugno alla Multisala Apollo.
Gli Immortali racconta la storia d’amore di un padre e di una figlia. Difficile, come le storie d’amore sanno spesso essere.
Chiara, tecnico delle luci, sta lavorando ad una rappresentazione di teatro-danza dedicata a “Le Baccanti”, quando suo padre torna nella sua vita, accompagnato, però, da un doloroso e inaspettato male.
Così la narrazione si muove tra emozioni del presente, ricordi del passato e scene di quello spettacolo su Dionisio che si fanno voce poetica sempre più forte di quello stesso vissuto.
Il processo creativo del film ha attraversato un lungo cammino. Ciccone scrive la sceneggiatura nel 2004, ma le riprese iniziano solo nel 2022: “La storia del film – racconta la regista – inizia nel 2004 perché parte dalla storia vera degli ultimi giorni che ho passato in ospedale con mio papà prima che ci lasciasse. Vedevo mio papà una volta l’anno, perché lavorava come capocantiere in Africa, nelle zone a rischio. Era un sognatore, i miei genitori appartengono a quella generazione hippie così idealista. Ogni anno mi scriveva: ‘Questo sarà l’anno giusto’, non si sa per cosa.
Nei momenti di angoscia e di paura della mia infanzia, quei momenti in cui il pensiero della morte di chi ami ti soffoca, lui mi promise che noi saremmo stati immortali. E la cosa drammatica di quei giorni di sofferenza fu realizzare che mio padre ne fosse stato convinto fino all’ultimo. È un aspetto tipico del suo spirito molto siciliano (era così anche mio nonno che ho sentito sempre canticchiare ‘son contento di morire ma mi dispiace; mi dispiace di morire ma son contento’). Per lui è stato sempre un gioco.
In quei giorni, scherzando, mi disse ‘so che ci farai un film di tutto questo, cerca di fare un bel film però ed evita che la tua umiltà ti faccia ombra’. Così, nel momento più brutto, feci a mio papà questa promessa.
Ci lavorai subito con Francesco Torelli, mio produttore da sempre, Rai cinema approvò il tutto, ma, quando ogni cosa sembrava pronta, mi resi conto che era troppo presto. Scrivere questa sceneggiatura – di cui non ho cambiato nulla – fu terapeutico per me, ma il cinema deve essere terapeutico per chi lo vive non per chi lo fa. Sentii, allora, il bisogno di essere più grande per consegnare ad altri quella storia. Mi dedicai in sostituzione al mio lavoro Il prossimo tuo e poi a I’m – Infinita come lo spazio. Passarono gli anni e quando Rai cinema mi chiese dei miei prossimi progetti, una persona a me vicina si ricordò di questo. In quel periodo, avevo vissuto una serie di coincidenze da realismo magico davvero, che mi convinse fosse arrivato il momento giusto”.
Portare sullo schermo un rapporto così importante e profondamente personale è stata una vera sfida artistica. “Parlando con una mia studentessa ormai amica – continua- ho riconosciuto come tutto il mio cinema, alla fine, non sia altro che una grande perfomance della mia famiglia. Non me ne ero resa conto prima, ma tutte le storie che racconto – eccezion fatta, forse, solo per Il prossimo tuo – parlano della mia famiglia adoratissima ma disfunzionale.
Nella mia famiglia davvero è accaduta qualsiasi cosa, ingiustizie, eventi assurdi o drammatici. Ancora oggi con mia sorella riflettiamo sul perché ci sia capitato di tutto. A 16 anni, ero da mia nonna in Finlandia e le chiesi come mai succedesse tutto a me. Lei mi rispose: ‘Perchè lo sai raccontare’. Ognuno di noi ha una missione nella vita, la mia è riuscire a trovare in quel dolore che ho vissuto un punto di universalità, permettere alle persone di rivedersi nella verità della mia storia. Verità che, però, non è mai verosimile, va ristrutturata. La mia insegnante diceva che la realtà va fatta a pezzi e ricostruita come un mosaico. Questa è la mia virtù eroica, permettere che nel mio mosaico qualcuno trovi la sua catarsi.
Ho voluto raccontare mio papà in maniera tale da far capire il rapporto complicato di una figlia con un padre che sembra amare i suoi ideali più di quanto ami stare con lei. Ti ferisce ma lo ammiri, perché è un papà eroe, un papà guerrigliero dei racconti mitici. E volevo, poi, raccontare un sentimento tragico che ci lega tutti da sempre: la consapevolezza di star perdendo la persona che ami”.
Per questo motivo, la metafora e lo strumento della narrazione mitica de Le Baccanti si sono dimostrati centrali. Spiega, infatti, la regista: “Le Baccanti è l’ultimo testo di Euripide. Il tragediografo che ha sbeffeggiato sempre gli dei, adesso sta per morire e, considerando la morte inaccettabile per il non credente, si riapre, forse, alla religiosità.
Chiara, come lui, razionale, precisa, che non crede in Dio, si trova a fare i conti con una malattia che arriva come una punizione divina. Avrei dovuto portare in scena una versione di Teatro-Danza de Le Baccanti per Taoarte e, mentre ci lavoravo, ho provato subito una forte immedesimazione con la storia, un forte senso di identità. Così ho potuto incrociare al cinema il teatro, la storia da me raccontata con lo sviluppo dello spettacolo, la cui voce si fa sempre più presente. Quello che avrei potuto mettere in luce esplicitamente nella sceneggiatura lo faccio dire, invece, alle baccanti. Così ho potuto realizzare un lavoro sperimentale, ulteriore motivo per il quale credo sia una scelta più giusta accoglierlo adesso e non 20 anni fa, quando sarebbe stato difficile comprenderlo”.
Tra ospedali che sembrano prigioni, dove vige il disinteresse e l’assenza di umanità e sindacati opportunistici, dove è necessario “portare doni ai portatori di doni”, Gli Immortali è anche un film di denuncia, affrontata, però, con la potente arma della narrazione onirica.
“Anche questo fa parte della promessa a mio papà – rivela Ciccone. A mio papà e al ragazzo che era in camera con lui, il cui vero nome era Marco. Marco era arrabbiatissimo per come venivano trattati, per come venivano curati, per tutto il non detto, per ciò che nascondevano. Quando mio papà diceva che dovevo farne il film, voleva che questi momenti drammatici venissero testimoniati con ancora più forza. Non mi piace fare polemica, ma quello che ho vissuto è ancora peggio di quello che ho raccontato. Pregiudizi e disprezzo. Poi c’erano gli angeli come l’infermeiere Giulio o il dottore che restava oltre i suoi turni a controllare tutto, ma per lo più ho visto tanta disumanità e un atteggiamento vergognoso.
Questo per quanto riguarda la sanità. Ho voluto orientare il mio sguardo anche su un altro grande tradimento subito da mio papà: quello da parte dei sindacati. Mio padre credeva tantissimo nell’unione dei lavoratori, a 11 anni, già, mi porta alla sede della CGIL. Ma dopo stipendi non pagati e la firma di un contratto ingannevole, il sindacato privò mio padre dell’aiuto di cui aveva bisogno per non perdere i suoi interessi e gli consigliò di prendere un avvocato. La situazione si è risolta solo 10 anni dopo la sua morte.
Chiara, nella sua natura così apollinea e razionale, cerca di affrontare il dolore appigliandosi ad una serie di soluzioni pratiche da portare al papà. Non posso salvarti dalla malattia ma almeno aiutarti a risolvere queste faccende burocratiche. È lo stesso che faccio io – precisa ancora -, cerco qualcosa su cui posso avere controllo; se non posso entrare nelle leggi degli dei entro nelle leggi degli uomini, ma anche lì sono tante le difficoltà. Chiara si vede accogliere con battutine sessiste, quei commenti – che tutte noi donne purtroppo abbiamo dovuto sentire almeno una volta – che con vera o finta non curanza si rivelano molesti. Il tema di fondo che provo a trattare sempre è quello del pregiudizio. Lo sento in quanto donna e in quanto donna appartenente a due culture e quindi un po’ estranea a tutto e tutti. Ci sarà sempre nel mio cinema”.
A incorniciare i momenti narrati è la colonna sonora firmata dai BowLand – passati con successo a X Factor 2018 e ora band di fama internazionale. Così nasce la collaborazione: “I BowLand li avevo adorati a Xfactor. Mio marito Lorenzo [D’Amico de Carvalho, marito e regista con cui collabora ormai da anni, adesso al montaggio per Gli Immortali] mi ha regalato il biglietto del loro concerto per il mio compleanno. Ero in un brodo di giuggiole.
Nel periodo in cui facevo le prove per lo spettacolo rappresentato nel film cercavo per le musiche qualcosa di simile allo stile delle loro canzoni. Allora, quell’uomo incredibile che è mio marito riesce ad organizzarmi una call con loro e il loro manager. Accettano subito senza fare nessun problema neanche dinanzi al budget low-cost del film, sono disponibilissimi, umili, creano le musiche sulle coreografie che avevo già realizzato, a partire dalle clip che mandiamo loro ci danno suggestioni meravigliose. Nasce così una bellissima collaborazione, per la quale, prima della proiezione del film, il 19 giugno, uscirà autonomamente la loro colonna sonora.
È facile trovare nel film diversi richiami a Nietzsche, dal rapporto con la divinità e l’opposizione tra dionisiaco e apollineo all’idea di poter essere oltreuomini o l’amor fati. Ma ci sono, poi, anche i riferimenti agli astri, a Erwin Schrödinger e la meccanica quantistica. Anne Riitta Ciccone si laurea, infatti, in Filosofia a Messina. La sua formazione filosofica influenza la sua regia e la sua narrazione cinematografica: “A 9 anni lo decisi: ‘Da grande farò i film’. A 16 anni, grazie a Ninni Panzera e al suo cineforum nella Saletta Milani, non sapevo ancora neanche come si chiamasse chi realizza i film ma confermavo di volerli fare. Per fare i film dovevo andare a Roma, volevo, poi, riportare mia mamma in Finlandia, ho iniziato, allora, a lavorare come assistente al teatro e al cinema, ma non era facile, le donne registe ai tempi erano davvero due al massimo, mi dicevano tutti di pensare ai costumi o alla scenografia. Avevo studiato al Liceo classico e mio papà voleva mi laureassi come non aveva potuto fare lui. Mi iscrissi, per lui, a Medicina e diedi con buoni risultati i primi esami di Anatomia, Chimica, Fisica. Fu un anno molto strano, con eventi molto drammatici, su cui farò un altro film [ride n.d.r.]. Tornando a casa un giorno, mi chiesi cosa stessi facendo. Io volevo fare cinema. Per fare contento papà avrei preso la laurea, ma in ciò che più mi piaceva in assoluto: la Filosofia.
Andai in segreteria ad inscrivermi durante il semestre inoltrato, ma lì mi dissero che gli esami sarebbero iniziati tra tre giorni, iscriversi sarebbe stato, quindi, ormai impossibile, avrei perso l’anno. Fermarmi in quel momento della mia vita sarebbe valso a dire perdermi. Disperata, mi mandarono allora dal professore Girolamo Cotroneo; lui mi permise di iscrivermi e fare gli esami. In due giorni preparai Letteratura italiana. Mi laureai con una tesi su Freud e la psicologia dell’arte e non smisi mai di studiare. La adoro tanto quanto adoro il cinema, ho succhiato dalla filosofia tutto ciò che è, poi, diventato il mio cinema. Dico sempre ai miei studenti che bastano tre mesi per imparare ad usare la macchina da presa, ma tutto il resto, il senso profondo del cinema è raccontare la vita, l’animo umano, per questo bisogna studiare Filosofia e Psicologia. La Filosofia è l’analisi più profonda, lunga, lontana e senza finale che esista dell’animo amano, per capire davvero i personaggi bisogna conoscerla”.
In conclusione, preparandosi al suo arrivo a Messina, la regista rivela l’emozione unica e diversa che genera in lei tornare a casa per presentare un suo progetto: “É una sensazione strana. Agrodolce. Per tanto tempo non sono più venuta. Durante i miei viaggi qui, per i sopralluoghi del film L’amore di Marja, provavo questa sensazione già sul traghetto. Nel 2017 ritorno per presentare I’m – Infinita come lo spazio, accompagnata da Lorenzo che non era mai stato qui. Folle, tra l’altro, a non essere mai venuto in Sicilia! Ho iniziato, allora, a vedere i posti della mia vita con i suoi occhi, dal mio Liceo La Farina, alla tomba di papà. Adesso, venire a presentare un film su mio papà, il mio papà che voleva passare la sua pensione sui laghi di Ganzirri e pensare a questo futuro che non c’è stato mi mette un po’ il magone. Ma il passato nel ricordo acquisisce dolcezza. Da qui nasce questo sentire unico. È strano immaginare i miei vecchi amici continuare a vivere e realizzare la loro vita qui, mentre io sono lontana; ma è bello rivederli, la mia migliore amica, per esempio, che è qui anche se io vivo a Roma da un sacco di anni, la mia compagna di banco del Liceo, perché i veri amici sono quelli che ti fai sui banchi di scuola. È tutto familiare e non familiare al tempo stesso, come se appartenesse ad un altra vita. Ma è molto bello, nostalgico, un po’ angosciante, ma dolce”.