Sono striate le porte-finestre del laboratorio di Giuseppe Crupi, come di materia ossidata, elementi che si frammischiano, voluti o trovati, tra l’opera dell’uomo e la natura che sembra dormire selvaggia e acquattata nel seno delle Gravidelle. Intravederne la figura tra i vetri un po’ opachi rimanda l’alito di una fatica appassionata. E la mano decisa ma vibrante su una grande tavola, quasi una piccola Guernica di bianchi e di neri, che solo a poco a poco rivela più raffinati contrasti, e meno facili letture. E il capello brizzolato, l’occhio acuto, il sorriso che accoglie. Premessa di un incontro che ha bisogno di tempo, di un tempo che solo pochi, troppo spesso, sanno dedicare all’autentico studium, che è, alla fine, malgrado ogni vento contrario, amore e contemplazione.
A una a una vengono tirate fuori, da inesistenti scomparti di parete, opere di diversa dimensione, che appaiono ben presto come scansioni dell’anima. Solo un rapido accenno a qualche vecchio lavoro, ma tutto si concentra, in una apertura nel tempo piano della insocievole socievolezza, sull’opera degli ultimi anni, ancora poco nota perché frutto di un afflato che ha qualcosa di continuo e, forse, di inatteso. Un flusso di incoscienza che lotta con le figure della mente, per fare spazio all’animus e all’anima. Amore e psiche, eros e dialettica in perpetua lotta e perpetuo incontro, forze contigue di uno stesso élan, che è desiderio, dynamis, vita anche quando sembra avere colori di morte. Sono giovani gli artisti quando toccano l’acmé, e sanno di potersi permettere il piacere anche gratuito e ignorato della fatica creativa che è energia, esercizio fisico mentale che ha in sé anche una forza muscolare. E mi sono beato, lo ammetto, dopo tanto acrilico, a risentire, a Messina, l’odore dell’olio e dei solventi.
È fisico, più che chimico, questo autore; ma conosce bene quel che pone sul suo supporto, riguardo al quale si esprime con nonchalance, quasi a dover bussare sul colore per ricordare su cosa esso si posa, tavola, tela, cartone telato: non importa. La forma ha vinto la materia, e quest’arte è, hegelianamente, romantica, nel senso puro del concreto hegeliano, che è l’idea, unica realtà che conta.
– Fa ancora informale? – mi si chiede. E non so rispondere, perché mi rimbalza in mente un rimando dello stesso Crupi: la forma dell’informale. Ed è vero. Non la trovò mai neppure Aristotele, per quanto l’abbia teorizzata, la tanto disprezzata hyle, la materia informe. Perché anche l’informe si presenta, maledettamente, formato; e allora bisogna incidere, lottarci, percuotere, graffiare, per romperne la ubre, avrebbe detto Maria Zambrano, e farne scaturire un latte che, in fin dei conti, è luce. Ma per vedere tale luce occorre perfino schermarsi, perché: «Bisogna addormentarsi in alto nella luce. Bisogna star svegli in basso nell’oscurità intraterrestre, infracorporale dei diversi corpi che l’uomo terrestre abita: quello della terra, quello dell’universo, il suo stesso corpo» (Chiari del bosco).
So i nomi dei grandi, o dei migliori messinesi, ma so che in molti sono ormai fermi. E ho la consapevolezza di trovarmi davanti a una figura, questa sì, assai formata, che ha uno stile riconoscibile. E questo non è poco. L’ho rintracciato e lo riconosco, tra le pareti della scuola in cui insegno, ogni volta che guizza il lavoro di un allievo. Insomma questo artista l’ho rincorso, e per quanto lo avessi cercato, solo adesso l’ho incontrato, e me ne sono sentito onorato.
Ho rincorso, lo ammetto, luoghi di riposo: verdi acquorei, che sono nostri fino a un certo punto, che mi hanno portato alle coste della Francia da cui Crupi è nato, dove la luce è meno abbagliante del colore e questo, forse, più fermo, ma non estraneo a belle trasparenze. E i guizzi del rosso, e della ruggine, e del violaceo: come se il colore primario si sia nascosto dalla sua stessa volgarità, e i piani si costruiscano non solo per dialettico ripensamento, ma per speculazione, riflettendosi l’uno sull’altro, creando prospettiva, fondo, sfondo, quinte, accessi, recessi, sospensioni. E ho battezzato un quadro La stanza di Giulietta, ove una figura individuata rimane sospesa tra i segni della sua inconscia ma viva memoria. E ancora una volta, ho riposato.
Ho scovato una piccola tela che mi ha ricordato un allestimento de I Giganti della Montagna visto da ragazzetto. De Berardinis. Così è, se mi pare: sembrano figure disposte sotto una luce inclinata, ma multifocale. C’è Caravaggio a Messina, e anche qui, non si sfugge. E allora si fugge, in un’altra tela, con movimento laterale per poi scoprire due piani orizzontali: e anche qui, avere pace.
No, non c’è sosta. La dynamis impera. La sosta è nel’attesa, nella pazienza che hai, poi, di fermarti, e dialogare, e lasciarti vedere. Lasciar essere, Gelassenheit, quel che nessuno sa più fare: abbandono, ascolto, ma anche l’occhio può ascoltare, quello stesso che è stato l’artefice del più tracotante ed empio attivismo.
E allora mi attivo, e mi fermo: tu pittore, e io ‘lettore’. E quella stasi, tra l’uno e l’altro gesto, è assoluto, temporanea sosta, non quiete, su un piano di eterno, che forse insieme cerchiamo, e dove le parole cedono al senso, che non è parola: inaggirabile, ineffabile ma, nell’arte, ancora esprimibile.
Non credo di avere parole da aggiungere a quelle che ha scritto sapientemente Brunella Macchiarella, a proposito delle opere di Giuseppe Crupi racchiuse in un piccolo catalogo. C’è tutto lì, il seguire con discrezione silente l’irrequieta vivezza dell’opus creativa, tra forma ed informe, nell’aletheia che è, in sé, necessaria velatezza. Quel che racconto è solo l’esperienza di un incontro atteso e voluto, in cui ho fatto esperienza di quel che lei scrive, e me ne sono appassionato.
Questa discrezione, di un artista che lavora appartato, in una città banale ed urlata, mi piace non poco: un castone tra le colline, questo studio, e una bella mano, una bella mente che sono un solo gesto («l’anima è come una mano», diceva Aristotele) a restituire le forme alla loro oscura ma preziosa matrice.
Gabriele Blundo Canto