“La mostruosità è un fatto sociale prima che anatomico. Un’entità fisica non catalogabile, atipica, e nel contempo strettamente familiare”. Nato a Messina, l’artista visivo Alessandro Di Pietro (1987) si è formato tra Como e Milano, dove ha frequentato l’Accademia di Brera e presentato le prime esposizioni. Tratto comune delle sue opere la ricerca del frammento spurio, un tratto anomalo immerso nel fluire quotidiano e ad esso intimamente collegato. “Mi interessa capovolgere le gerarchie, creare una strategia per un nuovo immaginario. Negli ultimi due anni ho realizzato degli spazi installativi che riproducono le esigenze di un personaggio fittizio. Creo dunque il profilo psicologico di chi dovrà abitare quello spazio, agendo sull’architettura del luogo e sui bisogni sociali. Una sorta di saga – utilizzando forse un termine improprio – intorno a personaggi-matrice che non vediamo in nessuna fase del processo. È inutile rintracciare una trama che leghi le varie opere: parliamo di una sceneggiatura decostruita, ancorata solo a una possibilità, a un’ipotesi”.
Messinese solo di origine, poiché la tua formazione è interamente lombarda.
La mia famiglia si è trasferita a Como quando io ero ancora molto piccolo. Conservo il legame con la città, un rapporto anche solo astratto: è soprattutto un metro di paragone con altre realtà. A Messina vivono anche i miei nonni materni, la “Maga” e l’“Inventore”, fonte preziosa per la mia ricerca stilistica. Adoro l’idea che la mia città di origine sia un luogo di passaggio, in mezzo a località differenti; credo che questo influisca in qualche modo anche sulla mia personalità. Non ho mai esposto a Messina, non conosco così bene la realtà siciliana per comprendere a che punto sia la riflessione sull’arte contemporanea sull’isola, escludendo casi più noti come quelli di Modica o Palermo.
Le tue opere sono attualmente in esposizione in vari musei d’Europa.
L’ultimo lavoro, Felix, è rimasto in mostra alla Marsèlleria di Milano fino a maggio. La serie che ho creato è formata in sequenza da un prequel, Tomb Writer (solve et coagula), un studio sul protagonista, Downgrade Vampire, e infine quello sul suo fantasma psicologico, Towards Orion – Stories from the backseat, in mostra a Parigi nel 2017. Le opere sono ibridi narrativi focalizzati sugli spazi, capitoli di una storia che sfocerà poi in un libro testimonianza. Non mi interessano, invece, le metodologie di produzione del cinema.
In passato anche un lavoro nel campo della video-arte con New Void.
Un’opera al limite con questo genere artistico, poiché si trattava della scansionatura del film Enter the Void di Gaspar Noè direttamente dallo schermo del MacBook: una produzione di nuove immagini interpolate da una base preesistente per ricercare un nuovo significato. New Void è stato proiettato durante il Festival di Locarno e a Firenze nelle sale di Palazzo Strozzi, ma è un lavoro forse unico nella mia carriera.
Numerose sono le ispirazioni alla base del tuo lavoro.
Mi affascina il mondo costruito dal fumettista americano Daniel Clowes per il suo graphic novel David Boring, una storia sempre pervasa da un senso di oscura minaccia; sono poi particolarmente vicino ai temi espressi da Soderbergh per la serie The Knick e allo sviluppo del personaggio di Rick Sanchez nel cartoon Rick and Morty. Da sempre nutro un interesse per le atmosfere dark di Batman, una figura che mi affascina per il suo rapporto con i cambiamenti tecnologici: una sorta di archetipo narrativo, un supereroe che non nasce già dotato, ma che aggiunge protesi artificiali in una società in continua mutazione. Per quanto riguarda il cinema, oltre a Cristopher Nolan ammiro molto il percorso di David Lynch, soprattutto per Mulholland Drive e Inland Empire. Nello sviluppo della mia riflessione sulla mostruosità non posso non citare Elephant Man. Con una formula probabilmente forzata potrei definire il mio lavoro sugli ambienti una versione di Elephant Man senza Elephant Man.
La tua ricerca prevede un contatto diretto con il pubblico.
Le opere di Felix hanno una temperatura di 37°. Talvolta i musei intimoriscono, non si ha l’abitudine di toccare i lavori in esposizione. Credo sia necessario anche esperire o addirittura profanare le opere per darle nuovo significato, così da rendere sempre vivo il rapporto con l’arte.
Domenico Colosi