Guerra? Ho sentito bene, guerra? Sembra questa l’eco che si ripercuote dal titolo della personale di Alessandra Lanese, lessema posto in un’altra lingua, spelling storpiato nell’apertura di un gergo, come quando vediamo apparire dalla bocca vorticosa dello Stretto navi grigie che alludono pesantemente a una realtà a noi – solo a noi – estranea. Dopo Neofigurativo informale che nel 2014 ha percorso l’asse della penisola, dal nostro Monte di Pietà a Villa Vertua (Milano), in cui si coglieva il prevalere dell’elemento estetico in senso puro, lo sgretolarsi della tela come coriandoli di intonaco circondati dalla linea curva degli acanti dei nostri paraggi mediterranei – e dolce mi è sembrata quella luce – alla sobrietà e alla delicatezza tonale che insieme sono la cifra distintiva della Lanese si unisce adesso un elemento “nuovo”: l’attenzione politica nel senso più alto, l’assistere sgomenti a preparativi di guerra e la preoccupazione per le sorti dell’Umanità. Neo-Illuminismo informale? Forse. E non è un giocare con le parole, considerato l’uso assai vario che è stato fatto, dopo Bataclan, della simbologia pseudo- rivoluzionaria, e il modo ragionevole riflessivo e mite, eppure sofferto, con cui Alessandra Lanese attraversa quel velo di fuliggine.
L’interrogativo W a r ? sottolinea lo stupore verso una realtà che sembra insolita, ma permea fin dalle radici il nostro Occidente: la manipolazione del reale, la cifra guerresca che non vuol tramontare. La hybris, per quanto provocata sul suolo della patria dei diritti moderni, non smette di essere tale e di avere modalità in continuum con le due guerre mondiali: aerei, portaerei, carri armati.
Cosa è accaduto, da un anno all’altro, a segnare il passaggio “di tono” e l’acuirsi di questi contenuti, la loro precisazione, nell’opera della Lanese? Chissà quali e quanti artisti, sull’onda degli eventi bellici della prima parte del secolo scorso mutarono il segno del loro discorso; chissà quanti compresero che era il momento di scendere dalle turres eburneae… Una velatura rossastra invade dall’alto la tela: il cielo trascolora: è il colore di un’ora che l’artista responsabilmente, non vuole eludere, e di tale traccia è disposta a segnare il proprio percorso offrendone qui le risultanti.
Errato pensare che tutto questo sia fuori dalle sue corde; basta sfogliare le tele, e alcune icone sono precorse, annunciate con l’ossessione dell’incubo: Parigi, Milano, Empire sono un volo a perpendicolo post Twin Towers sulle capitali mondiali già minacciate da un’aura di violenza. Il mondo oppositivo di 2, i palloni aerostatici, l’A380 e il sanguigno A350, per non dire dei tecnicismi – le ruote – rappresentate con attenzione radicale alla Ernst Jünger in Attraverso, Coincidenze 2014, Silenzio, Volo, Dentro, Alta tensione, e ancora Etna. Sono i prodromi di un mondo destinato a implodere. Guerra? Come se questa non fosse nell’aria in questa inesausta corsa a perpendicolo, invito spregiudicato incosciente alla caduta, vertigine che attrae da cui non può salvare alcun’ancora… “Esiste ancora un alto, un basso?” si chiedeva Nietzsche nell’annuncio della morte di dio. E la descrizione di questa pre-guerra assume nella Lanese – ed è questa la sua cifra – tratti che sembrano leggeri, levitanti come nella Belle Époque. Il bisogno estetico nella tecnica (Maslow lo aggiunse alla piramide dei bisogni nel ’68) appare come qualcosa di ironico, la semplice insostenibile – e forse ormai sostenibilissima – leggerezza del nostro essere e patire violenza. Lo sfondo si riduce di elementi, e quindi si espande, diviene più indefinito. I bianchi si dilatano. L’immagine topica viene collocata al centro. Ed ecco il primo signum: il trittico della bandiera, scompaginato, in quest’uso distorto che la rete fa dei simboli, con un aereo che pare inchiostrato come un marchio. La Francia rimbalza nelle immagini delle mongolfiere, icona di una possibile fuga, di uno sguardo distorto, da sotto a sopra, che è solo il pretesto di una traccia alternativa, la richiesta di altre direttrici oltre a quelle fin troppo previste, un volo o un sogno a rischio di caduta. Ma leggero. Una leggerezza che è delicatezza del tratto, ma anche graffio, quando occorre, unghiate d’artiglio drammaticamente incisive che a tratti sembrerebbero, alla Fontana, voler sbucare, e non solo più sbucciare, il supporto. Ma resiste la continuità della tela, la pagina bianca su cui distendere le emozioni, trattarle, farle placare come bestie irrequiete, trovare riposo in un momento senza pace.
Si inserisce, questa personale, in una teoria di artisti messinesi che sono alla loro acmé, punto focale di una maturità che è ancora giovane. Frutto appena raggiunto che è esperienza. Il tratto della Lanese si presenta discreto ma deciso, padrone della propria tecnica espressiva. La densità dell’olio, il suo nitore, viene placato con stratificazioni di tempera e ducotone ad ammansire la luce estendendola. Tratta con la luce, Alessandra Lanese, e usa il colore in un modo non aggressivo. Volutamente. È l’antipop e a noi sta bene. Ma non rasenta, come prima, il lirismo. Riflessione, in tutti i sensi: ottico e filosofico. Specchio del presente storico attraverso la mediazione rigorosa e assai polita del sé. Il velivolo, la nave da guerra con gli omini che più che combattenti sono superstiti, la mongolfiera, le ciminiere fumose, sono immagini/sogno o immagini/incubo che hanno assunto, dopo questa storia, la valenza/violenza di archetipi. E su questi, intorno a questi, si incrociano sguardi sospesi che, con l’artista, come nell’installazione-ologramma Aria realizzata insieme ad Antonello Arena, sono invitati a vedere la propria immagine stranirsi, quale semplice segno tra venti e vessilli. E ci si chiede: W a r ? Cosa seguirà all’interrogativo lo dirà il domani a partire dal modo in cui sapremo guardare questi eventi e dalle risposte – difficili – che daremo ad essi, ponendo l’Umanità come il segno tra i segni. Alla Lanese il merito di aver passato la domanda alla ‘civiltà indifferente’ che confonde la guerra con il gioco.
Gabriele Blundo Canto