Interessante lo spettacolo-concerto che ha avuto luogo venerdì sera all Palacultura per la stagione musicale dell’Associazione V. Bellini, insieme all’Accademia Filarmonica, basato su versi, musica strumentale e canzoni d’amore inglesi risalenti alla seconda metà del ‘500, coevi pertanto al grande William Shakespeare, del quale abbiamo ascoltato diversi brani tratti dalle sue più celebri commedie e dai suoi Sonetti. Basilio Timpanaro al clavicembalo, Picci Ferrari soprano e Irene Timpanaro voce recitante ci hanno condotto in un’epoca lontana, coinvolgendo il pubblico in un’atmosfera nostalgica e delicata, anche se talora scanzonata, dando vita ad uno spettacolo singolare al quale raramente capita assistere.
In un’alternanza di esecuzioni ora per solo cembalo, ora per soprano accompagnato da questo sempre affascinante strumento antico, ora dalla voce recitante declamante i meravigliosi versi di Shakespeare, i bravi protagonisti della serata hanno condotto un programma diviso in tre parti: la prima, intitolata If music be the food of love (Se la musica fosse il nutrimento dell’amore), dedicata a versi amorosi e languidi, che ricordano per certi aspetti il nostro Francesco Petrarca; la seconda parte, la più coinvolgente a mio avviso, intitolata Lachrimae, tutta imperniata di mestizia e pessimismo; la terza Sigh no more…! (Non più sospiri), dal tono allegro e giullaresco. Mentre i testi di Shakespeare sono stati recitati in lingua italiana, le canzoni, spesso su testi anonimi, di Dowland, Morley, Byrd, Johnson e Campion, sono state ovviamente cantate in lingua originale, l’inglese arcaico (quello di Shakespeare, per intenderci) e abbiamo potuto apprezzarne il significato solo grazie all’opera meritoria del presidente dell’Associazione V. Bellini, Giuseppe Ramires, che ha trasmesso per mail a tutti gli abbonati gli splendidi testi originali con la traduzione accanto. Questo suggestivo viaggio nell’epoca elisabettiana ci ha permesso di (ri)scoprire gli autori inglesi antesignani del grande Henry Purcell (il più grande musicista della storia della musica anglosassone), in particolare John Dowland e William Byrd. Il primo è stato un grandissimo liutaio e compositore della fine del ‘500, e le sue canzoni (songs) sono state composte per liuto e voce. Anche nella trascrizione per cembalo e voce abbiamo potuto apprezzare la malinconia, quel sapore triste e nostalgico proprio di tali composizioni, che come spesso accade nella musica dell’epoca, prediligono la tonalità minore. Splendide in particolare In darkness let me dwell (Lasciatemi vivere nell’oscurità), della quale esiste adesso una toccante interpretazione di Sting, che ha rivisitato, restando fedelissimo allo spirito dell’epoca, alcune canzoni di Dowland, e Flow my teares (Scorrete, mie lacrime), canzoni commoventi, dal tono mesto e desolato. Di Byrd, che invece era un famoso organista e clavicembalista del periodo, pertanto le composizioni ascoltate rivestono la forma originale, degne di particolare nota le variazioni per cembalo sulla canzone di Morley – anch’essa eseguita nella serata – O mi stress mine, variazioni splendidamente eseguite da Basilio Timpanaro, clavicembalista di livello assoluto. Il soprano Picci Ferrari ha interpretato egregiamente i Songs, con voce sicura e ottima pronuncia dell’inglese arcaico, riuscendo a cogliere con disinvoltura i diversissimi stati d’animo rappresentati dai testi, dall’innamoramento alla desolazione allo sberleffo. Molto bene anche la voce recitante, Irene Timpanaro, impegnata nell’interpretazione dei testi shakespeariani, molto dinamica (ben tre cambi d’abito), protagonista anche di un divertente duetto con il cembalista, anch’egli nel doppio e insolito ruolo di voce recitante, nel simpatico brano tratto da Molto rumore per nulla.
Graditissimo spettacolo che ha entusiasmato l’attento pubblico presente, premiato con un divertentissimo bis, nel quale anche la voce recitante diventa cantante, nell’interpretazione di una antica canzone popolare anglosassone sul desiderio di un giovane di maritarsi, espresso con insistenza e sfrontatezza alla propria madre. Celebrando Shakespeare e i suoi musicisti contemporanei, la serata è stata pertanto un delizioso omaggio alla poesia e alla musica, arte, quest’ultima, che anche il sommo drammaturgo inglese amava, tanto da dedicarle uno dei versi più belli composti sulla musica stessa, col quale mi piace concludere: “Se c’è qualcuno che non abbia ombra di musica in sé, né lo commuova una concordia di suoni soavi, colui è pronto al tradimento, alla frode, alla rapina, i riflessi dell’animo ha tenebrosi come la notte e gli affetti più neri dell’Erebo: di un tale uomo non fidatevi mai” (da Il mercante di Venezia – Atto quinto – dialogo fra Lorenzo e Gessica).
Giovanni Franciò