Il terzo appuntamento del Capo d’Orlando Blues Festival sposta la propria scena dal centro cittadino della città paladina al giardino di Villa Piccolo, per un doppio concerto dal rithm&blues più selvaggio della Lousiana degli anni ‘50 fino al cantautorato lirico e sferzante di Warren Zevon.
Ad aprire lo spettacolo Virginia Brown & the Shamless: impostazione retrò, brio e sfacciataggine per questa band siciliana che fa da supporto alla splendida voce della Brown, in un concerto di apertura che infiamma il pubblico con le note di molti classici del blues, da Art Neville a Etta James e Roy Brown.
L’energia degli Shameless e di Virginia Brown evapora nell’aria e scende sul pubblico, poi si abbassano le luci ed è il momento di Phil Cody. Il songwriter dell’ Ohio ritorna in Italia a distanza di anni, accompagnato dalla propria band (Steve McCormick alle chitarre, Roger Len Smith al basso, Bryan “Smitty” Smith alla batteria) per presentare il suo nuovo album, “Cody plays Zevon”(pubblicato in Italia dall’etichetta Appaloosa), un lavoro che non si inscrive affatto nella consueta tradizione della semplicistica rivisitazione di classici, materiale esclusivo per fan e cultori del genere. L’album, concepito nel 2013 a dieci anni dalla morte di Zevon, si pone piuttosto come un omaggio gentile e prezioso, un sincero tributo all’artista e al grande uomo che fu (ed è ancora oggi) una delle voci più originali del folk blues americano.
Lo scrittore Hank Moody, protagonista della serie televisiva “Californication”, ogni volta che termina di scrivere l’ultima pagina di un suo romanzo deve ascoltare, necessariamente, Warren Zevon. Credo che non ci sia immagine più eloquente e meglio rappresentativa di questa per descrivere la sua musica: l’esatto momento in cui poni fine alla fatica, tralasci il mondo circostante, relegandolo ad un tiepido sovrappensiero, ti chiudi alle tensioni, a tutte le inutili sovrastrutture dell’ affannarsi quotidiano e guardi quello che sei dalla tua solitudine. La solitudine, bella e dominante, è il centro di quelle storie un po’ tragiche e un po’ ironiche che Zevon ci racconta. Cody lo presenta al pubblico richiamandosi a due appellativi, nobili e desueti al giorno d’oggi: “mio mentore e amico”e, in effetti, l’intera esibizione si impone come una celebrazione altissima di questo rapporto di amicizia e di stima intellettuale, evitando patetismi e semplici citazionismi. Il musicista spoglia le canzoni di Zevon, proprio nello stesso modo in cui il cantautore amava fare, presentandole nude e crude nella loro essenza. Si susseguono così alcuni tra i brani più suggestivi, da “Play it all night long” a “Carmelita” che si cristallizzano tra gli aghi dei pini e le palme del giardino e sembrano far brillare di una luce tenera e romantica il luogo che ospita il concerto. Quando è il momento di “Splendid Isolation” sembra di sentire Warren tra i presenti con la sua ironia caustica e il suo lirismo d’altri tempi.
Nel 2003, dopo una dura battaglia contro il cancro (ci teneva a specificare che lui fumasse, sebbene fosse una bugia, raccontata per cercare di dare una giustificazione credibile a quell’insensata, lacerante malattia che lentamente lo consumava ), Warren lascia questo mondo, regalandoci un album-testamento – “The Wind” – che vede tra gli altri, la collaborazione di Bruce Springsteen, Tom Petty e Ry Cooder.
Tra tutti i brani ce n’è uno che ho sempre preferito, “Keep me in your heart for a while” in cui canta: “Sometimes when you’r doin’ siple things around the house
Maybe you’ll think of me and smile
You know I’m tied to you like the buttons on your blouse
Keep me in your heart for a while”
(Talvolta, quando starai facendo qualcosa di semplice in casa, magari penserai a me e sorriderai, sai che sono legato a te come i bottoni di una blusa. Tienimi nel tuo cuore per un po’).
Ieri sera non è stato eseguito questo pezzo, ma questo non fa alcuna differenza. Per un po’, quel breve momento che Zevon chiedeva, ho chiuso gli occhi e l’ho tenuto nel mio cuore.
Giuseppina Borghese