Provengo da un villaggio dell’estrema periferia sud della città e sino a quando interessi di studio, lavoro e vita non mi hanno condotto altrove, ero solita trascorrere il mio tempo libero nei luoghi di incontro vicini a casa mia e molte mie frequentazioni appartenevano anche ai comuni limitrofi.
Ve n’era una in particolare, la prima persona che mi aiutò a far venir fuori il mio orientamento e a cui per prima lo rivelai, perché la medesima situazione ci accomunava.
Era arduo scoprirsi e rivelarsi omosessuali in aree cittadine dove proprio questa persona, come mi raccontava e come feci testimonianza, era solita essere dileggiata quando passeggiava per le vie del “paese”. Difatti, non era inusuale che, nel percorrere a piedi la via principale, venisse investita da urla provenienti da auto o motorini di passaggio che la qualificavano come “ricchiuni”! E quelle urla erano lanciate al pari di un’offesa, perché era una vergogna essere gay e lecito ritenere che quel termine, così come le sue accezioni dispregiative, potessero essere utilizzate a mo’ di ingiuria.
La stessa che ha inteso compiere Lei, caro Professore, quando ha rivolto alla comandante Rackete l’appellativo di trans, rendendosi protagonista di un episodio dal sapor di arretratezza culturale che pensavo essermi lasciata alle spalle proprio vent’anni fa. Le Sue parole mi hanno offesa e non in quanto appartenente alla comunità LGBT, anche perché nel percorso di affermazione della mia identità ho sempre avuto il coraggio di mostrarmi per quella che sono senza alcun timore, ma in ragione del fatto che tutt’oggi per alcune persone, soprattutto i giovani, è difficile rivelare e vivere liberamente il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere, vivendo le stesse nel timore di essere oggetto di discriminazione ed emarginazione, e tenga bene a mente che ancora oggi si registrano episodi di genitori che mettono alla porta i figli per aver manifestato loro stessi e questo la dice lunga su quanto siano ancora forti il rifiuto e le resistenze dinnanzi ad un modo di essere proprio della persona.
E Lei, caro Professore, appellativo con il quale mi rivolgo per ricordarLe il Suo ruolo primario, non può pensare di nascondersi dietro giustificazioni che vorrebbero ricondurre la gravità delle Sue parole alla dimensione di “goliardata” o “battuta infelice”, quando proprio Lei, nella Sua veste di educatore, dovrebbe essere portatore di istanze di cultura e istruzione che accolgono e restituiscono pari dignità ad ogni forma di diversità, a maggior ragione nella situazione attuale in cui Lei rappresenta la massima istituzione cittadina in questo ambito.
E siccome, in una visione più o meno comune, ognuno deve essere ed è artefice del proprio destino, lo stesso Suo non può essere messo in mani altrui, ma dovrebbe essere Lei, caro Professore, ad avere il coraggio di comprendere la pericolosità delle conseguenze a cui può condurre il ritenere che sostantivi quali gay e trans, che qualificano un modo di essere naturale della persona, possano essere utilizzati alla stregua di insulto o peggio di un’offesa. Per questa ragione Le chiedo, da semplice cittadina, di fare un passo indietro e lasciare spazio a chi possa in maniera adeguata rappresentare non solo le istituzioni, ma due ambiti fondamentali nello sviluppo armonioso dell’essere umano, ossia la cultura e l’istruzione.
Sabrina Arena