Trentanove anni ci separano dalla morte di Pier Paolo Pasolini, poeta, scrittore, regista: ucciso in circostanze misteriose nella notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975, con un reo confesso minorenne che in un secondo momento avrebbe ritrattato, un libro ancora in bozze dedicato ad un’altra morte oscura ed eccellente, quella del presidente dell’Eni Enrico Mattei, ed un film scandaloso appena approdato al cinema dopo inimmaginabili traversie, con denunce, furti di bobine e preventive condanne morali, Pasolini è l’intellettuale profetico, il comunista eretico che si è schierato con i poliziotti dopo i fatti di Valle Giulia, l’autore di “Ragazzi di vita”, “Accattone”, “Mamma Roma”, l’omosessuale inquieto, un uomo complesso, singolare, iconoclasta.
Il mito di Pasolini, tenuto in vita in egual misura da appassionati e parassiti (come da molti anni è consuetudine in Italia per figure di questo genere), rivivrà alla Mostra del Cinema di Venezia con un film biografico realizzato da Abel Ferrara: Willem Dafoe come protagonista, Riccardo Scamarcio nel ruolo di Ninetto Davoli. Il film ripercorre le ultime 24 ore dello scrittore fino alla tragica conclusione all’Idroscalo di Ostia; in primo piano i luoghi cari a Pasolini, i gesti quotidiani, la scrittura, l’idea di realizzare un nuovo film con Eduardo De Filippo e l’amico Ninetto Davoli.
Ferrara ha dichiarato di avere messo da parte ogni morbosità perché disinteressato al consueto cerimoniale di ambiguità e ossessione che ha circondato l’uomo Pasolini: non vi è omissione né un tentativo di santificazione, ma l’attenzione è concentrata sull’artista, sull’intellettuale che cerca di ricostruire le macabre trame del potere in uno dei momenti più complessi della storia repubblicana. Proprio questo sarà il merito di Ferrara se il film (scritto con Maurizio Braucci, sceneggiatore di “Gomorra”), come sembra, celebrerà soprattutto lo scrittore, le sue ricerche, il suo grande progetto incompiuto, “Petrolio”, e lo farà con lo stile intransigente che contraddistingue il regista newyorkese, quello ammirato nella via crucis del cattivo tenente Harvey Keitel, con quel suo ciondolare sull’orlo dell’abisso, le crisi etiche ed i momenti di perversione, di gratuita violenza: la poetica del miglior Ferrara, quella di “Fratelli” o di “King of New York”, all’altezza delle tormentate storie di violenza e redenzione di Paul Schrader e Martin Scorsese, le migliori mai prodotte dal cinema americano negli ultimi decenni.
Domenico Colosi