Sulla rotta della decima musa: riflessioni a cura di Tosi Siragusa su "La spia", capolavoro postumo dell'attore premio Oscar morto per overdose nel 2013.
Dal Festival di Roma, in sezione “Eventi”, fra le anteprime, questa settimana è anche sugli schermi messinesi “La Spia” – A Most Wanted Man” con il compianto Philip Seymour Hoffman, deceduto tragicamente (pare di overdose) nel mese di febbraio.
Dal regista (fotografo) olandese Anton Corbijn, una spy-story anomala, scevra di action, tutta anatomia introspettiva, tratta, con una sorta di rilettura, dal romanzo psicologico di John Le Carré: dal felice incontro il romanziere ed il regista sono riusciti a trascendere i reciproci limiti.
Il gioco intellettuale è incentrato sul dopo l’11 settembre, atteso che tre degli attentatori – come si scoprì – erano di base ad Amburgo che da allora venne posta sotto osservazione dei servizi segreti.
Robin Wright è Martha Sullivan, agente dell’intelligence americana; Willem Dafoe, Tommy Brue, banchiere ambiguo; Rachel Mc Adams è Annabel Richter, l’avvocatessa idealista, paladina dei ricercati politici e dunque anche di Issa, personaggio chiave, di origine russo-cecena (figlio del colonnello dell’armata rossa Grigori Karpov, criminale di guerra) ricercato quale terrorista ed impersonato da Martin Wuttke.
Interrogativo sciolto nelle ultime battute del lungometraggio è: Issa Karpov è un ingenuo coinvolto in una sequela di eventi più grandi di lui o un pericoloso terrorista? Issa è usato quale esca per incastrare un dottore arabo, dedito alla filantropia, ma sospettato di finanziare Al Quaeda. Ci sono, ancora, Max, giovane agente, reso da Daniel Bruchl e Erna Frey, ardente agente tedesca, interpretata da Nina Hoss.
Su tutti giganteggia Seymour Hoffman, Günther Buchmann, la spia venuta dal freddo, capo della speciale unità dei servizi tedeschi che, in antitesi alla spia che nell’immaginario consueto è charmant, si trascina, invece, greve, stropicciato, solitario, il corpo informe e lo sguardo dolente e acuto figura improbabile quanto riuscita di una depressa spia, afflitto da un dolore senza lacrime e sprofondato nel fumo e nell’alcol. Günther, che coopera alla sicurezza nazionale, è incapace di provvedere alla propria, deve riscattarsi dai fallimenti del passato ed è chiuso in una sorta di ritiro coatto, infarcito di principi manichei (giusti), ancora atto a distinguere il bene dal male, pur nel cinismo che lo connota in quel suo mondo acromatico, isolato dalla sua squadra, che pure lo ammira. Philip Seymour inscena il proprio tramonto definitivo e l’ultimo piano di Günther è anche l’epitaffio di un disilluso gigante che ha deciso di spegnere le sue luci. Benoit Delhomme realizza la sapiente fotografia di una Amburgo cupa, volutamente smorta; ottimo anche il montaggio di Claire Simpson, splendide le musiche, grande la regia.
D’interesse il finale, che riabilita tutto il progetto, con il suo crepuscolare epilogo, che brucia il possibile futuro (non solo professionale) che sembra caratterizzare l’intesa di Günther con l’agente americana.
In conclusione il film, di fattura classica, mai banale, molto raffinato, dal respiro trattenuto, tratta dei dilemmi morali che il terrorismo scatena e dell’ingerenza (spesso ottusa) degli americani negli affari del mondo e resterà certo nell’immaginario dei cinefili quale testamento professionale del grandissimo Seymour Hoffman.
Tosi Siragusa