Nello scorso fine settimana i direttori artistici dell’Associazione culturale – che ha fin qui, e giova lodare quando si deve, condotto un’ottima stagione densa di contenuti e importanti presenze, in una parola assai interessante – hanno completato la sequenza delle opere in scena: per il Clan degli Attori è infatti stata rappresentata, con la regia di Giovanni Maria Currò e Mauro Failla, Amigdala.
Il termine dell’intitolazione, promanante dal greco “Amygdàlè”, mandorla, in mineralogia fa riferimento ad una concrezione e afferisce scientificamente alla piccola formazione di strutture interconnesse vicine all’ippocampo, nel lobo temporale ovoidale, che costituisce nucleo del sistema limbico, cioè quello deputato all’elaborazione degli stati emotivi: in particolare in occasione di eventi che potrebbero scatenare paura, il corpo amigdaloideo dunque è individuabile come la porzione di cervello deputato alla gestione di quelle sensazioni. Fu Joseph LeDoux a pervenire alla scoperta del ruolo fondamentale dell’amigdala, attraverso gli organi sensoriali che ricevono informazioni dall’ambiente, nel sistema di allarme del cervello, definito quale inconscio, per far fronte alle emergenze e per padroneggiare in una frazione di secondo il lobo pre-frontale e gli stimoli non percepiti coscientemente, ma con valenza emozionale. Il percorso consente cioè di reagire a stimoli potenzialmente pericolosi prima di conoscerne l’esatta valenza… Il primo ad avere paura è il corpo, poi la mente, e l’amigdala inizialmente risponde ad un impulso di minaccia potenziale e non ad uno stimolo pauroso specificatamente percepito. Se queste sono le premesse, che ho scelto di argomentare nello specifico, il lavoro si è snodato attraverso stimoli frastagliati, che intenderebbero lasciare l’uditorio libero di interpretare se quelle intense paure siano reali o solo percepite. Proprio su queste percezioni dettagliate dell’umano sentire e sulle connesse risposte emozionali e cercando di renderle nel loro divenire, è basata la piece, che ben evidenzia come solo tale descritta reazione (che fa entrare in azione le sentinelle delle umane emozioni) ci consenta la sopravvivenza alle avversità dell’esistenza, per fronteggiare eventi che non consentono la piena padronanza della razionalità. Prendendo le mosse da tale comune denominatore – che infine si coagula nella totalitaria paura delle paure,quella della morte – i registi hanno dato inizio tre anni fa al relativo progetto laboratoriale, innestandolo su uno studio embrionale di testo che potesse dar voce alla tensione psicologica e fisica che si attiva per dispiegare utilmente le risorse che permettono di gestire situazioni vissute come pericolose. Sono state allora messe in scena le emozioni basiche che si generano nell’encefalo umano: rabbia, paura e istinto di sopravvivenza, essenziale per la persistenza di ogni specie. Si è molto lavorato – risulta di tutta evidenza – sull’empatia che gli interpreti hanno ricreato con gli spettatori, fino a giungere ad una emotività “guidata” e condivisa. Per questo, si presume, la “mise en scene” si è snocciolata a mezzo di brevi flash – forse volutamente slegati e interconnessi comunque dal nucleo centrale delle sensazioni psichiche negative – dei quali solo alcuni densi, come quello delle due figure femminili colpite a morte da insetti sanguinari, o ancora quello del giovane che fin da bambino ha udito le voci che gli hanno ordinato di uccidere, e infine quello del condannato da una macchia radiografica – indelebile – che per questo deve fare i conti con un percorso terapeutico infernale e dall’esito forse infausto.
Intenso, ma scarno, lo script drammaturgico di Orazio Abate, Nino Cosenza e Giovanni Maria Currò, sapientemente reso dagli stessi Abate e Cosenza, unitamente agli altri attori Kasia Albrecht, Piera Costantino. Manuela Smeriglio, e ancora, agli ex allievi Martina Costa, Angelo Morabito, Cinzia Murabito, Sabrina Pellegrino e Carlo Spinelli. Determinante soprattutto il movimento scenico di Brunella Macchiarella; le scene assolutamente scarne hanno fatto poi da perfetto contrappunto alle intense sensazioni. Le bianche vesti dei personaggi femminili, contaminate da rosso sangue, che le attrici hanno indossato alla perfezione – e ciò anche in senso metaforico a ben simboleggiare le problematiche legate alla violenza contro il femminile – non sono certo passate inosservate unitamente alle maschere fosforescenti e ai molti altri effetti scenici, quali il fumo bianco e il persistere del buio, interrotto solo da funzionali lampi di luce. Le musiche non originali, infine, pur se a tratti possono esser definite solo acuti suoni prolungati, hanno attinto al repertorio di Bjork, dei Goblin etc. Importante è riconoscere le proprie paure per dare inizio alla ineluttabile lotta, questa sembrerebbe la “ratio”. La rappresentazione,che era già andata in scena presso la sala Laudamo nel giugno del 2016, con diversa articolazione soprattutto sotto il profilo attoriale, è di sicuro nel frattempo ”cresciuta”; probabilmente però il meritevole progetto, apprezzabile in definitiva per il tentativo di sondare il territorio inesplorato della psiche, portando alla luce i nostri fantasmi e stimolando egregiamente le vibrazioni dell’uditorio, abbisognerebbe di ulteriori approfondimenti.
Tosi Siragusa