Una vecchia consolle con un bacile, una sedia da barbiere davvero consunta, quattro sedie di legno consumate, un altarino con una immagine sacra indefinibile, fanno da misera scenografia ad un esercizio commerciale di barberia (o a quel che resta di esso) ove da tempo (“i tannu” ) non entra più anima viva e in questa ambientazione due poveri esseri si incontrano. Solo sul finale, si preannuncia, i due protagonisti troveranno una loro maniera per comunicare, cercando una qual condivisione di quei resti delle loro esistenze, bloccate dalle rispettive tragedie, che li hanno condotti ai margini, isolati dall’umano consesso, da quelli che sembrerebbero normali individui. E così la piece si dipana per i suoi tre quarti fra incomprensioni e contrapposizioni, causate da maldestri tentativi, da parte del più loquace (almeno in apparenza) un vagabondo senza prospettive, che a cavallo di una bicicletta (anzi di una carcassa di bici) percorre sentieri impervi, fuori da ogni tempo, di trovare un contatto con quel barbiere allontanato dagli uomini per aver reagito con violenza ai soprusi di un odioso barone che da tanto lo vessava, costringendolo quotidianamente a fargli la barba senza pagare. Il locale, alfine si apprende, dovrà essere demolito e proprio in quella giornata, che pare interminabile, il povero barbiere attende di consegnare all’acquirente a seguito della vendita giudiziaria,quelle chiavi che il vagabondo accetterà di dare in sua vece. Come già detto i due riusciranno a condividere scampoli di umanità e il vagabondo regalerà quella bici ereditata dai suoi avi, che fin lì gli ha permesso di scacciare i fantasmi del passato che lo ha così pesantemente inchiodato con la morte della sorella, che era impazzita, e quel suo funerale, che non riesce a scordare, per la sua assenza di persone e per la mancanza anche di un fiore gentile. Il felice connubio fra l’autore, attore e regista dell’opera teatrale, Rino Marino, di professione psicologo, e Fabrizio Ferracane, l’altro interprete, già sperimentato egregiamente in “La Malafesta” e “Orapronobis”, si conferma punto fermo dell’odierno universo teatrale e collaudata è quella cifra del grottesco che sempre in bilico fra comicità disperata e drammaticità, caratterizza la narrazione, che utilizza sovente una terminologia poetica (si pensi al sole che è divenuto un “occhio secco …..”). Quello scontro fra sventurati dunque si ricompone e il rifiuto mano a mano si stempera in una disperata urgenza comunicativa, che la musica evocativa, presente solo nel finale, evidenzia con grande maestria. Un plauso.