Venivamo dal mare, verso l’ignoto

Venivamo dal mare, verso l’ignoto

Tosi Siragusa

Venivamo dal mare, verso l’ignoto

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giovedì 01 Marzo 2018 - 13:10

Mise en scene di potente afflato lirico e evocativo per non dimenticare quelle donne destinate all'ignota "Merica"

Lo spettacolo diretto da Lucia Sardo, con mise en scene al Clan Off di Messina è stato davvero toccante ed ha giustamente ricevuto tributi e ovazioni dal numerosissimo pubblico presente. Si sono prese le mosse dalla prassi molto diffusa dal primo dopoguerra in avanti – ma soprattutto negli anni trenta – dei matrimoni “per procura”, ove si imponeva alle future spose di maritarsi con uomini visti solo in fotografia, che sovente non trovavano alcuna corrispondenza con il modello reale che dovevano raggiungere in America, sobbarcandosi un lunghissimo viaggio per mare, colmo di incertezze e disagi; quelle, che venivano appellate “spose del mare” venivano così, ex abrupto, sradicate dal loro ambiente e dagli affetti consolidati per andare incontro ad un futuro nebuloso e privo di punti di riferimento in terra sconosciuta.

Il bel testo di Lucia Sardo, fortemente evocativo e denso di liricità, ci trasporta in quell’universo ancestrale di disperazione, miseria – spesso – e desolazione, fondato sulla considerazione delle “femmine” quali esseri che rappresentavano un “minus” rispetto ai maschi, relegate come erano, a ruoli di fattrici e domestiche, senza alcun potere contrattuale, né tantomeno economico nelle famiglie di provenienza (ove le madri per lo più eseguivano i desiderata del “pater familias”, facendosi a loro volta aguzzine delle loro stesse figlie) né in quelle che costituivano. Così doveva andare, a questo si era state educate. Se questo era il triste sudario, la regia, della stessa Lucia Sardo – versatile alquanto – ci immette in quell’orrore, a partire dalle vicende di Rosa, sposa bambina in quel di Ganci, per mezzo di un pupo con fattezze adolescenziali, riccioli biondi di seta e vestine piccole, da bambolina, come quello da sposa candido e ricamato “puntu pi’ puntu” nella Merica e spedito in Sicilia dal futuro marito, tale “Piter” Lanzafame. Per Rosa è quasi un bel gioco, quell’avventura, non potendo comprendere appieno il sacrificio che le è stato chiesto. Gina è poi forse fra le poche spose pervase da entusiasmo, perché è un’orfana cresciuta nel convento di S. Chiara e si lascia andare, sognando una esistenza nuova in quel nuovo mondo, che non potrà che essere più bella di quella attuale. Capitava certo anche questo, quando non ci si lasciava dietro proprio niente. Dopo, ancora, è la volta di Maria, destinata a quel viaggio al buio, divenuta “infatata” dopo uno strano incontro – in realtà dopo uno stupro che l’ha resa sordomuta. Jolanda, infine, vittima prima del padre-padrone e poi di un marito carnefice, che non saprebbe riferire con esattezza chi dei due aguzzini le abbia procurato una ferita inguaribile al volto, sfigurandola,perché nel suo immaginario gli squallidi figuri sono così contigui da apparirle sostituibili. E Annaluna, la sposa più anziana, che assurge a ruolo di Madre per tutte loro, le protegge e se ne prende amorevole cura, ed è Lucia Sardo, di nero vestita per un lutto simbolico di denuncia della condizione femminile, che presenta il loro comune triste vissuto e quel destino amaro di sradicate. Attraverso l’interazione con John Capra, il faccendiere della nave che da Palermo deve raggiungere l’America, e che quella nave dirige, veniamo a conoscenza finalmente anche del suo passato, scoprendo che da trenta anni vive per mare, che non ha mai lasciato quel mezzo di trasporto, sin dalla prima volta che Giovanni – Capra – l’ha aiutata a nascondersi nella stiva una volta giunta a destinazione in America. Annaluna fuggiva allora da una miserevole esistenza, lei che era stata la “mogliettina” del prete e, una volta rimasta incinta, era stata da lui maltrattata e spinta a quelle nozze per procura, e sulla nave aveva perso il proprio figlio, affidandolo al mare. Gioacchino Cappelli (che è svelato essere degno figlio di Lucia) è davvero eccelso nei ruoli di Capra e di Ninuzzo, che si allena a divenire pugile, avendo studiato nel suo pollaio siculo le mosse di un gallo ispiratore.

La rappresentazione si snoda anche per mezzo di canzoni, con musiche originali dello stesso artista e di Sibilla Zuccarello, altra splendida interprete, che con la Sardo si alterna nella presentazione dei pupi e altresì suona una pianola e canta da vera artista a tutto tondo in grado di tenere la scena. Quanto detto sul nero degli abiti datati della Sardo vale anche per l’altra protagonista e le motivazioni della scelta sono analoghe. I pupi, con provenienza dalla famiglia di pupari Catania, sono poi perfettamente acconciati, quelle quattro future spose e un pupo con fattezze maschili, a simboleggiare il genere. Deve dunque lodarsi anche la maestria dei costumi di Rosy Bellamia, come la scelta scenica, molto minimalista – quasi obbligata per le proporzioni della location e del piccolo palcoscenico – con pochi rappresentativi oggetti atti a rimandare a quel periodo storico in quelle latitudini : e così, valigie di cartone, unico possedimento delle “spose del mare”, ricolme di piccoli indumenti, qualche bauletto e borsetta, un tamburello, una campana e quella Statua della Libertà, infine illuminata, che costituisce un miraggio, l’approdo mitizzato, un forte simbolo di vita novella, che spesso rimane solo vagheggiata.

Tosi Siragusa

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