Società

Confedilizia Messina. Case, immobili e condominio in pillole

La rubrica a cura di Confedilizia Messina

I ruderi sono cresciuti del 123% in 12 anni

Unità collabenti, in 12 anni sono cresciute di 342mila, aumentano anche nelle città

Frosinone, Cosenza e Messina, non sono le solite aree del Paese che compaiono ai primi posti quando si parla di statistiche immobiliari, che si tratti di compravendite, di prezzi o di valore degli immobili. Sono invece nelle prime tre posizioni nella classifica delle province con più unità collabenti. Ovvero i fabbricati che, secondo il catasto, hanno perduto la loro capacità reddituale, in quanto diroccati o fatiscenti, o addirittura ruderi. Possono essere anche immobili con il tetto crollato o parzialmente demoliti o caratterizzati da un notevole stato di degrado.

Non stupisce che siano diffusi soprattutto nelle aree rurali del Paese, lontano dai grandi centri urbani che magari soffrono da decenni la crisi demografica diffusa, con l’esodo di grandi porzioni della popolazione. Nella provincia di Frosinone, infatti, sono 31.902 (dati 2023), quasi sei volte in più che nella vicina Città metropolitana di Roma Capitale, dove sono solo 5.709. Nel cosentino e nel messinese se ne contano rispettivamente 22.974 e 18.537, mentre nel milanese, provincia molto più popolosa, solamente 1.764. Inutile sottolineare che se, invece, analizzassimo i dati sulle abitazioni civili più diffuse, quelle di categoria A/2, troveremmo posizioni invertite, in provincia di Roma ce ne sono 1 milione e 129mila, quasi dieci volte in più che nel frusinate, 128.948.


Sono in tutto 620.003 e sono cresciuti del 123% dal 2011

Nel complesso in Italia le unità collabenti sono 620.003, la loro presenza, come si è visto, è totalmente slegata dalla numerosità della popolazione e la loro distribuzione rappresenta, piuttosto, una mappa del disagio economico, sociale e demografico. Del resto, oltre alle province di Frosinone, Cosenza e Messina, ai primi posti vi sono anche quelle di Torino, Cuneo, Foggia, Reggio Calabria, Lecce e Benevento, dove ruderi e immobili fatiscenti sono, in ognuna di esse, tra i 14mila e i 16mila. Si tratta quindi di zone del Mezzogiorno e di aree della regione del Nord in cui la montagna ha sofferto il maggiore declino economico e demografico, il Piemonte.

Tuttavia l’elemento più indicativo è probabilmente la crescita nel tempo delle unità collabenti. Il confronto è con il 2011, ovvero prima dell’introduzione dell’Imu, imposta che ha inciso significativamente nell’innalzamento di questi dati. Se le abitazioni, cioè gli immobili di categoria A, tra il 2011 e il 2023 sono aumentate solo del 6,5%, da 33 milioni e 429 mila a 35 milioni e 593 mila, nel caso dei ruderi l’incremento è stato di ben il 123%. Dodici anni fa, infatti, erano solo 278.121.

  • Il loro numero è salito soprattutto in alcune province in cui nel 2011 tali unità collabenti erano ancora pochissime, come Ferrara, dove sono aumentati di ben il 361,7% poi gli incrementi maggiori sono quelli delle province di Agrigento, Avellino, Foggia e Mantova. In tutti questi casi c’è stata quasi una quadruplicazione del numero delle unità collabenti. Sopra la media gli aumenti anche nella Città metropolitana di Napoli, +199,5% e in quella di Roma, +185,2%.

Questi numeri mostrano infatti chiaramente che, nonostante, come si è visto, ruderi e case diroccate siano più diffuse in provincia e nelle aree rurali, di recente hanno cominciato a essere più comuni di prima anche nelle metropoli. Nella città di Napoli, infatti, sono passati dai 225 del 2011 ai 707 del 2023 e nello stesso periodo nel comune di Roma da 459 a 1.820. Sono ancora meno di quelli presenti in un grande capoluogo con una tradizione di situazioni di degrado come Palermo, 3.810, ma stanno crescendo. A vedere un incremento relativamente basso è solo Milano, dove in 12 anni le unità collabenti sono salite da 280 a 366.


Un aumento davanti al quale non si può rimanere ciechi, le proposte della Confedilizia

La grandissima maggioranza dei ruderi, l’88,7%, appartiene a persone fisiche, si tratta quasi solo di case, magari appartenute a genitori o nonni e che poi sono passate a eredi ormai trasferitisi altrove. Questa situazione caratterizza un numero crescente di altre abitazioni che sono a rischio di totale abbandono, spesso già inagibili e inabitabili, ma ancora non categorizzate come unità collabenti al catasto, e su cui, quindi, si paga l’Imu a differenza di quelle collabenti che, ricordiamo, sono esentati dal pagamento dell’imposta.

È facile capire come, soprattutto in alcune aree, sia un problema sociale, è per questo che la Confedilizia chiede alcune misure poco costose, come, per esempio l’esenzione totale dall’Imu degli immobili situati in comuni sotto i 3mila abitanti, quelli più colpiti dal fenomeno. Costerebbe solo 800 milioni di euro, ma sarebbe un segnale importante per chi vive nelle zone più interessate dal problema. Circa 50 milioni, molto meno, sarebbero necessari per esentare completamente dal pagamento della medesima imposta i proprietari degli immobili inagibili e inabitabili già citati, che oggi hanno solo una riduzione del 50% della base imponibile. Quello proveniente da questa tipologia di case, del resto, è un gettito a scadenza, il destino di queste abitazioni, che tali non sono più, è di diventare unità collabenti.

Quantificazione del danno per ritardata restituzione dell’immobile locato

In tema di locazione, il danno per ritardata restituzione ex art. 1591 c.c. è “comprensivo dell’aggiornamento secondo indici Istat, posto che esso è parametrato al canone dovuto”. Pertanto, “se a contratto in essere sono dovuti gli aggiornamenti Istat, essi non possono che essere dovuti anche a contratto scaduto e fino al rilascio dell’immobile, anche se il locatore non ne abbia fatto espressa richiesta (…), e senza necessità di costituzione in mora”. Su dette somme “sono anche dovuti gli interessi, a far data dalle singole scadenze mensili di occupazione”.(Così la Cassazione civile, con ordinanza n. 18318 del 4.7.2024)

Immobile vincolato e finita locazione

“Qualora un bene immobile, per il quale sia stato stipulato un contratto di locazione ad uso commerciale, risulti classificato, in base ad un provvedimento amministrativo emesso ai sensi degli artt. 1 e 2 della legge 1.6.1939, n. 1089, quale bene di interesse particolarmente importante, determinandosi in tal modo un vincolo artistico e culturale non soltanto sull’immobile, ma anche sugli arredi, le decorazioni, i cimeli storici e la relativa licenza di esercizio, la sussistenza di tale vincolo non si traduce, per il proprietario, nel divieto di intimare al conduttore la licenza per finita locazione, ma soltanto nell’obbligo di garantire la continuità della destinazione del bene nei termini indicati dal provvedimento istitutivo di quel vincolo”.(Così la Cassazione civile, con sentenza n. 19350 del 15.7.2024).