Una “città vuota” – ricordate Mina? – somiglia, per certi versi, a un occhio cavato, nella cui orbita si agita ancora la memoria di una pupilla in continuo movimento, una pupilla aperta sul mondo, lente di lettura delle vicende che vi si svolgono. Quella pupilla è stata anche il più potente – e raffinato – mezzo di comunicazione tra una persona e l’altra perché lo sguardo, si sa, non nasconde nulla, ragion per cui la vista è considerata il più nobile dei sensi, finestra di moti d’animo e ricettacolo di reciproche induzioni.
Una città vuota è un occhio che non vede più ma, dietro quell’occhio, il flusso indistinto dei ricordi non smette di rammentarci che la comune cognizione del tempo è concetto aleatorio, e ogni passato è sovrapponibile al presente solo che se ne capisca la lezione, ciò che quel passato ha ancora da dirci. E il nostro passato, a volte, è prodigo d’insegnamenti che ci pongono sulla giusta via, specie quando la confusione delle lingue regna, e con essa l’anarchia delle pulsioni, tirate fuori da quella che, nel nostro monocorde gergo quotidiano, è ormai diventata l’”emergenza”.
La nostra città, orbene, su cui i dolci rilievi peloritani continuano a vegliare in assorto atteggiamento d’attesa, oggi è una città vuota. Lo è non solo materialmente, nella surrealtà dei suoi spazi deserti improvvisamente privi del contenuto che li identificava, ma anche e soprattutto interiormente. La pandemia ha seminato un contagio molto più pernicioso di quello virale, quello del panico, il che si traduce nell’incapacità di trovare valide soluzioni d’uscita perché non si riescono a mettere a fuoco i problemi reali che ci affliggono.
Dal panico, è noto, non può che generarsi altro e ancor più travolgente panico il quale, se interessa anche le istituzioni e gli organi chiamati ad assicurare la tutela della salute e del benessere pubblico, rischia di mandare in fumo quei pochi presìdi messi a disposizione della comunità per fronteggiare il pericolo Covid-19. Ora, se i dati statistici in nostro possesso indicano che la prima delle curve epidemiologiche – quella dell’azzeramento dei contagi giornalieri – è in progressiva discesa, non si vede per quale motivo, in città, non siano ancora predisposte delle misure atte a evitare che, dopo il “trend” positivo di queste ultime settimane, si possa ricadere nella rete tesa dal corona. E la misura più sostanziale resta, com’è sempre stato dall’inizio di quest’incresciosa vicenda, l’isolamento delle fonti di contagio.
Chi scrive l’ha studiato sui testi di epidemiologia, dove s’insegna l’importanza dell’inchiesta epidemiologica per frenare e quindi arrestare definitivamente la catena diffusiva. Restringere la comunità nell’ambiente chiuso delle proprie abitazioni, imporre regole comportamentali come il distanziamento sociale, l’uso dei DPI e quant’altro costituiscono solo aspetti accessori della difesa dal contagio. Significa schierare un battaglione di soldati contro un carrarmato senza disporre di un “bazooka” che possa, se adeguatamente usato, avere la meglio sulla fortezza semovente. L’isolamento dei contagiati, prima e dopo l’infezione, è l’arma più efficace – e spesso vincente – nella guerra contro gli agenti infettivi.
Ci misureremo, altrimenti, solo in conflitti che vinceremo o perderemo in base alle nostre capacità di respingere il nemico immediato, ignorando che dietro quel battaglione c’è un nemico invincibile qualora non si prenda in considerazione la necessità di neutralizzarlo prima che possa scagliarci addosso la sua carica mortale. Una carica che è ben custodita in forzieri invisibili, come i portatori sani che passeggiano tra noi a nostra insaputa trasmettendoci le minuscole virgole destinate a inondare il nostro organismo. O come ancora i soggetti che sono entrati in contatto con positivi, nonché i soggetti positivi e paucisintomatici che continuano a convivere insieme agli altri componenti del loro nucleo familiare o comunitario. O come, infine, i soggetti dichiarati guariti che tuttavia sono ancora infettanti perché continuano a eliminare virioni attivi.
Siamo ben consapevoli – e il Nord per primo ha lanciato l’allarme in tal senso – che le nostre strutture ospedaliere non riescono a reggere l’onda delle emergenze respiratorie (ma non solo) da Covid-19, e che pertanto è necessario allungare quanto più possibile la permanenza in ambiente extra-nosocomiale. Dove, peraltro, si allunga anche la lista dei contagi perché al nostro corona si associano le miriadi di germi opportunisti che colonizzano i reparti. E’ per questo che, mai come in questo momento, è indispensabile una risposta pronta e coordinata del territorio nella gestione del contagio invisibile.
Le misure? Ormai il loro elenco è diventata una panoplia. Ma, come c’insegnano i Latini, repetita iuvant. Eccone una breve sintesi:
aumento dei tamponi sul territorio, in conformità alle sempre più pressanti richieste provenienti da soggetti paucisintomatici e personale sanitario non sintomatico ma che tuttavia deve essere messo in sicurezza per svolgere con serenità il proprio lavoro;
individuazione sul territorio di alloggi ove i soggetti che sono entrati in contatto con positivi possano trascorrere la quarantena (contrariamente a quanto si possa pensare, sono solo 15 giorni) isolati dal resto della loro famiglia e/o comunità di vita. Tali alloggi dovranno pure essere destinati a tutti quei soggetti riscontrati immunizzati a seguito di prova sierologica (dosaggio delle immunoglobuline), ma che al tampone risultino ancora positivi e pertanto infettanti;
allestimento di strutture dedicate al ricovero di soggetti paucisintomatici che hanno intrapreso una terapia anti-Covid-19 e non possono vivere ancora in famiglia né, tantomeno, isolati nella propria abitazione privi del necessario sostegno medico-assistenziale.
La vera sfida al Covid-19, nella cosiddetta “fase 2” della pandemia si gioca insomma sul territorio. Decongestionando gli ospedali, si potranno sempre più fronteggiare ulteriori emergenze ma soprattutto si riuscirà ad elevare significativamente il livello di guardia contro il contagio. Il favorevole andamento epidemiologico (la progressiva diminuzione dei ricoveri in terapia intensiva, il numero decrescente di decessi giornalieri e specialmente l’innalzamento delle persone dichiarate clinicamente guarite) costituiscono tutti fattori concorrenti al progressivo – e ci si augura irreversibile – depotenziamento del SARS-COV2.
Per tutto questo, le istituzioni dovranno certo mobilitarsi. Ma dovrà farlo anche l’opinione pubblica perché le idee, come qualcuno ha già detto, vengono pure e soprattutto “dal basso”. Un esempio tra tutti? La recente e dettagliata proposta di adibire, in via temporanea, i padiglioni dell’ex-P.O. “R. Margherita” a struttura di ricovero per pazienti paucisintomatici da assistere adeguatamente per evitare il viraggio a malattia conclamata.
E allora, questa città vuota? Che farne? Riempiamola di buoni propositi. Il resto verrà da sé.