«Il ricordo più triste? Momenti difficili ce ne sono stati tanti. Ma forse la cosa più atroce era il momento che seguiva la morte dei nostri pazienti. Avvolgevamo i corpi in lenzuola imbevute di amuchina o candeggina. Poi venivano sistemati nelle bare e chiusi senza che le famiglie potessero vederli. Rituali che hanno inevitabilmente segnato ognuno di noi».
A parlare è il dottor Antonio Versace, l’uomo del Covid Hospital del Policlinico di Messina. Specialista in medicina di emergenza e urgenza, è anche presidente SIMEU della Sicilia, in questi tre mesi è stato il coordinatore del Covid Hospital di cui hanno fatto parte le Unità di Infettivologia e Pneumologia dei professori Giuseppe Nunnari e Gaetano Caramori. E’ stato il primo a indossare mascherina, guanti, tuta e a muovere una macchina che ha coinvolto medici, infermieri, ausiliari, personale sanitario. Ha messo in piedi una squadra che ha dimostrato grande competenza anche nei momenti più duri. Lo ha fatto grazie ad una sinergia creata insieme al Direttore generale Giuseppe Laganga, al Rettore dell’Università di Messina Salvatore Cuzzocrea e al “crisis team” che ha lavorato giorno e notte senza sosta. E oggi Versace traccia una sorta di linea di demarcazione. C’è la vita prima del Coronavirus, ci sono i tre mesi della pandemia e adesso deve iniziare davvero la fase 2. Per la sanità e per il Policlinico di Messina.
Ieri è stato un giorno importante per il Covid Hospital del Policlinico di Messina. Il team Covid che ha gestito la pandemia si è fermato. Un’interruzione intanto temporanea, perché bisognerà ovviamente monitorare cosa accadrà nelle prossime settimane. Ma intanto è un grande segnale. Una decisione che arriva sulla scorta dei numeri registrati nelle ultime settimane. Al Covid Hospital del Policlinico di Messina sono trascorsi 18 giorni senza nuovi casi positivi. Nessun nuovo contagio. Al momento ci sono 16 persone ricoverate che saranno trasferite in altre strutture. Dunque si può iniziare a “smantellare” quello che per quasi tre mesi, nel padiglione H, è stato il quartier generale della lotta al Coronavirus al Policlinico.
Mentre lo dice, il dottor Versace non nasconde un velo di emozione, ma nel suo sguardo e nelle sue parole c’è anche grande soddisfazione.
Cosa resta di quello che è stato?«Un gruppo multidisciplinare che ha compreso specialisti di tutti i settori e che proprio grazie a questa caratteristica si è dimostrato vincente. Quando li ho radunati tutti ho chiesto loro soltanto una cosa: lavoriamo insieme per risolvere insieme i problemi. Anche perché in ballo c’era la vita delle persone e anche la nostra. Nelle prime settimane eravamo sempre tutti lì, ogni giorno, tutto il giorno. C’era il cambio turno e nessuno andava a casa. Chi non si occupava dei pazienti cercava di capire meglio come assisterli, cosa fare. Tra le prime che tutti abbiamo dovuto imparare c’è stato il rito della vestizione. Abbiamo fatto un vero e proprio training perché anche da quello dipendeva la sicurezza di noi tutti. La cosa più bella che ci lascia questa prova che abbiamo affrontato è la nascita del gruppo di Medicina ad alta complessità». Tornando con la mente a quei giorni, Versace si illumina nel dire grazie soprattutto ai giovani, ai neo specializzandi e specializzati che sono stati il cuore pulsante del Covid Hospital del Policlinico. «Sono stati i primi a dire sì. Non si sono tirati indietro. E hanno trascinato con il loro entusiasmo anche tutti noi “adulti”».
Non sono mancati i momenti di paura, di stanchezza, di dolore. «Quasi tutti abbiamo scelto di non vedere le nostre famiglie, i nostri figli. Abbiamo vissuto in case diverse per non far correre rischi. E’ stata psicologicamente ed emotivamente dura. Andavo a salutare le mie figlie dal balcone. E il giorno che ho fatto un tampone ci siamo potuti avvicinare».
In corsia, tra le stanze e i piani di quel padiglione H si sono incrociate vite, storie, speranze, sofferenze. Ogni paziente era una piccola sfida da vincere. Ma il Coronavirus non è stato un nemico accondiscendente. «Mi ha colpito molto la morte di un paziente giovane. Aveva 51 anni e un parkinson precoce. Sembrava finalmente stare meglio, eravamo fiduciosi. E invece all’improvviso, nel giro di 20 minuti, non era più con noi. Oppure un anziano tetraplegico di cui ci siamo presi cura con amore e dedizione fino alla fine, nonostante sapessimo che non ce l’avrebbe fatta e che potevamo fare poco».
Tra le immagini tristi c’è anche il momento in cui i pazienti dovevano lasciare le loro famiglie. «Arrivavano al triage infettivologico e dovevano salutarsi. Da lì iniziava un cammino di paura e solitudine da entrambe le parti. Noi però abbiamo cercato in tutti i modi di essere quella famiglia che ognuno di loro aveva lasciato a casa e che non poteva vedere. In tv scorrevano le immagini delle bare in fila a Bergamo, qui entravo in una stanza e vedevo ausiliari e operatori socio sanitari che si prendevano cura di quei pazienti come se davvero fossero loro nonni, genitori, amici. Senza timore li abbracciavano, li accudivano, stringevano le loro mani. Un’umanità che superava guanti, maschere, occhiali e tute. E’ stata una grande lezione di vita».
Tra i giorni più belli invece quello in cui sono iniziate le prime dimissioni. O il compleanno di nonna Concetta che con i suoi 100 anni è riuscita a vincerlo quel nemico invisibile. «Ci chiedeva continuamente di controllare la batteria del suo cellulare perché doveva chiamare la sua famiglia. Per lei non si andava a dormire senza latte e biscotti. E quando ce li ha chiesti la prima sera non eravamo preparati. Così abbiamo fatto un veloce passaparola e siamo riusciti a recuperare tutto quello che serviva per darle la sua tazza di latte caldo».
Sono storie che segnano, che raccontano cosa c’è stato dietro l’emergenza sanitaria. Dietro i numeri, i bollettini, il lockdown. Per il dottor Versace la lezione che resta si può spiegare al meglio con le parole di Patch Adams: “La missione di un medico non deve essere solo quella di prevenire la morte ma anche quella di migliorare la qualità della vita. Ecco perché se si cura una malattia si vince o si perde. Se si cura una persona si vince qualunque esito abbia la terapia”.
Con questo bagaglio adesso si va verso la fase 2. Il Policlinico si sta già riattrezzando per tornare alla normalità, ma i rischi ci saranno perché il Covid è ancora tra di noi. Per questo servirà tenere tutti la guardia alta, rispettare le distanze, usare le mascherine. Senza dimenticare ciò che è stato.
Francesca Stornante