Il flop della riforma Tartaruga, nota anche come la “Crocetta-Giletti”, primo caso al mondo di legge annunciata in diretta tv e portata a termine in 4 anni, è il simbolo di un mandato elettorale basato più sugli annunci che sui fatti.
Il ripristino della democrazia diretta, ovvero delle elezioni di primo livello, è un fatto positivo, rispetto ad una riforma che invece prevedeva che a governare Città Metropolitane e Liberi Consorzi fossero consiglieri decisi a tavolino nel chiuso delle stanze tra gruppi di potere e di partiti.
Il 4 dicembre uno dei motivi che ha portato alla vittoria dei No alla Riforma Costituzionale è stato anche la mancata condivisione di un Senato eletto con il meccanismo di secondo livello, lo stesso previsto dalla riforma delle ex province per la Sicilia per i consiglieri e il presidente del Libero consorzio.
L’elezione di secondo livello è una “nomina” camuffata e preclude la libera scelta del cittadino che si ritrova un eletto che non ha voluto lui. Con il secondo livello i politici si “votano tra di loro”, si attribuiscono seconde poltrone senza che al cittadino resti alcuna scelta.
Poniamo un esempio tanto in voga in tempi di trasformismo. Donna Sarina vota un consigliere di un partito X. Strada facendo però quel consigliere trasmigra nel partito Y che ideologicamente è l’esatto opposto del partito con il quale è stato eletto. Il consigliere poi, grazie all’elezione di secondo livello e ad accordi presi tra i partiti approda nel Consiglio Metropolitano e magari anche nella Giunta Metropolitana. Il tutto senza passare dalle urne ma solo da incontri tra partiti.
Il meccanismo della riforma Crocetta-Giletti prevedeva infatti la presentazione di liste da parte dei partiti composte da consiglieri in carica. Con la riforma siciliana a votare ed eleggere il Consiglio sarebbero stati gli stessi consiglieri in carica nei 108 comuni. Era inoltre previsto il voto ponderato in base al quale il “peso” del voto dei singoli consiglieri era correlato alla popolazione del Comune rappresentato. Il voto di un consigliere comunale di Messina, ad esempio, valeva fino ad 8 volte più di quello di un collega di Roccavaldina. Ne conseguiva che a decidere la composizione del Consiglio Metropolitano e quindi dell’organismo elettivo di secondo livello non sarebbero stati gli elettori ma i partiti più forti (soprattutto le cordate più forti).
Un siffatto meccanismo elettorale (molto simile a quello previsto per il Senato dalla riforma della Costituzione bocciata con il referendum) avrebbe dato ampio margine alle manovre dei partiti e portato le stesse persone ad avere più incarichi.
Ma c’è di più, perché nel frattempo in Sicilia si è raggiunto il record di 4 anni di commissariamento delle ex Province, con una gestione monocratica tale da far impallidire qualunque sostenitore della democrazia. I risparmi sui costi della politica sono stati irrisori e nel contempo, lasciando intatte le funzioni dell’Ente intermedio ed anzi aggiungendone nuove, il governo Regionale ha dato il colpo di grazia a quel che restava.
A proposito di costi della politica, il ripristino della democrazia diretta e delle elezioni di primo livello per le ex Province non comporta affatto aggravi di spesa rispetto alla riforma che è stata bocciata nei giorni scorsi.
Il numero dei consiglieri eletti dal popolo infatti è ridotto del 30% rispetto alla riforma Crocetta-Giletti ed anche rispetto al passato. Non percepiranno alcuna indennità né gettone ma solo rimborsi spese (fatto questo che non riguarda i consiglieri del comune capoluogo), esattamente come previsto anche dalla riforma (che però prevedeva un numero più elevato di consiglieri).
L’indennità sarà solo per il sindaco metropolitano e per i presidenti del Liberi Consorzi fatto questo che non dovrebbe far gridare allo scandalo, perché per amministrare una realtà vasta come una Città Metropolitana è più che legittimo essere pagati. A meno che non si voglia lasciare la politica ai soli ricchi e questo non sarebbe un bene per la democrazia.
In realtà Regione elefantiaca come la Sicilia dovrebbe affidare sempre maggiori funzioni sia alle Città Metropolitane che ai Liberi Consorzi piuttosto che accentrare.
I sindaci metropolitani di Palermo e Catania, Orlando e Bianco, hanno preso molto male la bocciatura dell’Ars, soprattutto per la parte che elimina l’automatismo “sindaco del Comune capoluogo-sindaco metropolitano”. Orlando infatti ha già indetto ugualmente le elezioni del Consiglio Metropolitano per il 17 dicembre (Consiglio che resterà in carica fino alla primavera 2018 quando si terranno le elezioni di primo livello), con grave dispendio di denaro e con la conseguenza che quel Consiglio vedrà eletti di secondo livello, ovvero scelti da accordi tra partiti e non liberamente dai cittadini. Pare che anche Enzo Bianco stia meditando la stessa scelta.
Se fosse per Orlando vorrebbe diventare automaticamente sindaco di mezza Sicilia senza passare dalle urne ma solo per il fatto che Palermo lo ha voluto primo cittadino per cinque volte (il che è un bel record ma non può valere per tutto il mondo).
Accorinti rispetto ai due colleghi sta prendendo una strada opposta. Procederà con il dissesto dell’Ente così come richiesto dal commissario Romano, dimenticando che queste sono scelte che dovrebbero essere prese da chi governerà l’Ente che tra due mesi sarà commissariato. A maggior ragione se lui ha sempre dichiarato di non essere entusiasta di quest’incarico (che infatti finora non ha svolto lasciando tutto in mano a Romano).
Accorinti dimentica che l’ex commissario Croce, al Comune nel 2013, lasciò decidere ai futuri sindaci le sorti del dissesto. Ed infatti Accorinti, che in campagna elettorale era per il dissesto, cambiò idea il giorno dopo l’elezione.
A Palazzo dei Leoni sta facendo il percorso inverso, peraltro per un “dissesto a carattere preventivo” dal momento che l’Ente non è sommerso dai debiti come il Comune.
E’ un po' come attaccare alla bombola d’ossigeno un cadavere (il Comune) e nel contempo sparare alla tempia ad un paziente che ha detto d’avere mal di testa (l’ex Provincia).
Rosaria Brancato