Dietro le quinte della mia intervista a Fausto Puglisi

Pisa, Sabato 21 Dicembre, ore 16. Da qualche ora mi aggiro estasiata e tormentata tra le sale del Palazzo Blu che ospitano un’imperdibile mostra di Andy Warhol. La potente narrativa cromatica delle sue opere mi scuote profondamente e mi appare come la didascalia appropriata per descrivere il mio attuale stato d’animo. Così, persa e fluttuante tra fiori variopinti, lattine di pomodori, sedie elettriche e detersivi, inaspettatamente mi imbatto in Skull, un vibrante e simpatico teschiofuxia con cui stringo subito amicizia . Sfidandomi a decodificare il suo messaggio, come solo un teschio sa fare, elusivo mi dice: ”Ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuta una lapide vuota. Nessun epitaffio, nessun nome. In realtà mi piacerebbe ci fosse scritto finzione” (A. Warhol). Parole, le sue che potrebbero dire tutto o anche niente ed essere apparentemente vuote o infinitamente Pop come le opere di Warhol, volutamente incompiute dalla loro medesima serialità: la ricerca di una verità che sa di non potersi realizzare se non attraverso la finzione dell’arte. Saluto Skull e proseguo il viaggio che attraverso i mie pensieri surreali si configura come una Neo-Divina-Commedia-Super-Pop. Entrata nel vivo della mostra, vengo sopraffatta da un senso di finitezza, che pervade lo scorrere ossessivo delle serigrafie dedicate ai miti americani, da Marilyn a Liz, tutte opere che esprimono la quintessenza della poetica warholiana: “queste maschere di morte su cui il celebre sorriso diventa un ghigno inquietante, sono icone assolute, capaci di sfidare il tempo e le mode” e la loro prorompente bellezza è l’unico effimero antidoto alla fugacità della vita. Sensazioni che trovano immediata conferma quando vedo ergersi di fronte a me le giganti serigrafie di un simbolico Vesuvio. E’ l’impermanenza che domina la scena, impermanenza che può manifestarsi improvvisa come l’esplosione di un vulcano o covare in maniera subdola e silente nelle viscere buie della profondità della terra. E, infatti, dopo tanto impetuoso colore, ecco Seismograph, una tela monocroma, scura, profonda sulla quale un unico tratto nero zig-zagato disegna la linea rilasciata dal sismografo al momento della scossa. In questo contesto, il buio assoluto, spezzato dal brusco tracciato, urla un’ ineluttabile verità: “il Sismografo è una metafora della vita, indice perenne dell’imponderabilità del destino che può muoversi all’impazzata da un momento all’altro distruggendo ogni cosa”… Ed io, non posso che essere d’accordo con la voce impersonale della guida interattiva che dichiara il suo implacabile aforisma…Esco dalla mostra con una senzazione ineffabile di precarietà ed ebbra di pensieri e colori, come un’automa mi dirigo verso Borgo Stretto. Mentre attraverso lo storico Ponte di Mezzo, un evanescente tramonto accende in me un’intuizione: è vero, il sismografo può muoversi all’impazzata da un momento all’altro… Ma è anche vero ciò che afferma una celebre legge fisica della meccanica classica : « Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma ». (A.Lavoisier). Pertanto, mi dico, conviene votarsi al ritmo dinamico e creativo della vita che avendo per natura la capacità di autorigenerarsi può sempre sorprenderci con la sua magia. Guardo “l’Arno d’argento”, e lì, nelle acque del fiume, vedo scorrere come titoli di coda, stralci di pensieri Nietzschiani a me cari: “Nessuna morte è mai stata capace di costituirsi come una vera obiezione nei confronti della vita” ed ancora: "Il grande stile nasce quando il bello riporta la vittoria sull’immane”. Aumento il passo, imbocco Borgo Stretto, e avendo in mente “il grande stile” leggera e determinata mi dirigo da Valenti, glamour store pisano e per rinfrancarmi compro, un paio di splendidi e “mis-sicilianissimi” orecchini di Dolce & Gabbana.

Roma, Domenica 22 Dicembre ore 18 e 30. Fiumi di gente, concentrata in un frenetico shopping natalizio, straripano dalle vie del centro sfavillanti di luci. Roma è l’ultima tappa di questo insolito viaggio che mi ha vista girovagare su e giù per l’Italia. Sono fuggita da Messina, città che adoro ma da cui devo periodicamente evadere. Forse noi abitanti dello Stretto abbiamo una strana congenita necessità di migrare aldilà delle coste di Cariddi. Forse lo Scirocco o forse il terremoto ci ha resi sempre pronti alla fuga. In verità, la mia è la fuga di chi sopravvive ad un terremoto, un terremoto intimo privatissimo e che per una strana alchimia mi conduce in via Borgognona. Sono in fila da Ladurèe, in attesa di poter acquistare una confezione di macarons, quei deliziosi dolcetti dai colori pastello che tanto mi rimandano all’iconica regina Maria Antonietta e mentre sogno di lei e del suo stile fatto di soffice e candida panna, fragoline e macarons, mi giro e vengo rapita dalle vetrine del n 42. Una lussureggiante vegetazione tropicale fa da cornice agli strepitosi abiti di uno di quei fashion designers che mi danno “la scossa“: Fausto Puglisi. Ho pochissimo tempo, tra poco il negozio chiude e così senza indugiare, con un gesto compulsivo da shopping addict, compro una minigonna che racchiude l’essenza dell’intera collezione Spring/Summer 2014.

Lunedì 23 Dicembre ore 6 del mattino. Sto per rientrare a Messina. I bagagli sono pronti, mi accerto di non dimenticare nulla, soprattutto la shopping bag di Fausto Puglisi con dentro il mio “trofeo”. Accidenti! Squilla il cellulare! Chi sarà mai a quest’ora? Vengo informata che Messina è stata svegliata da una forte scossa di terremoto… Riaffiora, prepotente l’immagine di Seismograph, insieme alle mie riflessioni su vulcani terremoti, energie ed alchimie ed il telefono continua a squillare…. e misticamente qualcuno mi dice: in città è appena arrivato Fausto Puglisi. Te la senti di fargli un intervista? Guardo la mia stupenda shopping bag e non ho dubbi! Per l’incontro con Fausto la utilizzerò come “it bag”!

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