Tindari è a tutti gli effetti un gioiello della Sicilia. È innanzitutto un promontorio, il Tindari, che dai Nebrodi si sporge sul Tirreno dominando i lidi fra Milazzo e Gioiosa. Un monte, uno dei caratteristici luoghi sacri della nostra antichità, ove si credeva dimorassero le deità.
Su questa magnifica altura il tiranno Dionisio I di Siracusa, Signore della Sicilia, edificò un abitato che si chiamò Tindaride (Tyndaris) in onore di Tindaro, sovrano spartano che fu patrigno di Elena, Clitennestra, Castore e Polluce, divina prole di Zeus. Divenne una città prospera e famosa, tanto che secoli dopo partecipava all’anfizionia delle diciassette città siciliane devote alla Venere di Erice – e Cicerone la definiva ciuitas nobilissima.
La salita al Tindari è a tutti gli effetti un cammino sacro, che nel silenzio della natura e nella contemplazione delle terre circostanti induce a meditare. Da subito s’iniziano a vedere tratti delle antiche mura ancora integri che s’inerpicano sui fianchi scoscesi e aspri del promontorio.
Raggiunte le prime costruzioni moderne, verso la vetta, ecco i banchi ove si vendono souvenirs siciliani, caratteristiche collane di nocciole e quelle pralinate, statuette votive che ritraggono il simulacro della Madonna con mantello bianco a motivi floreali e corona regale. Continuando oltre, prima di salire all’acropoli, per una viuzza si può procedere verso Tindari antica, interamente costruita in arenaria.
Chi lascia la strada e penetra nell’area archeologica si ritrova a camminare fra le vie di una città in rovina ove in modo chiaro si distinguono i perimetri degl’isolati. A un’anima sensibile le rovine di Tindaride possono apparire ancora piene di vita: saprà immaginare le merci nelle botteghe del decumano, le feste nelle case nobiliari, le chiacchiere per le viuzze secondarie. All’agorà si accedeva dalla via principale attraverso l’imponente propileo quasi intatto che svetta su tutti i resti. Guardando il mare, si possono vedere l’Eolie.
Il teatro, fra i più incorrotti della Sicilia, è il mezzo con cui la città antica vive ancora attraverso la recita di drammi vetusti e nuovi; le nebbie che talvolta salgono dal mare riescono a dare un’atmosfera più cupa alle tragedie ivi rappresentate, riportandoci nel tempo lontano e fatale del mito.
Aggirati gli scavi e riprendendo l’itinere fra i negozietti della Tindari moderna si arriva, più in alto di tutto il resto, all’acropoli, dominata dal Santuario della Madonna Nera. Giungere a essa significa completare l’ascesa al divino, potendo toccare quello ch’è il cuore vibrante della religiosità del distretto; di fronte all’imponente basilica il pellegrino non può che sentirsi piccolo, come di fronte alla Madre.
Nella cittadella si trovavano i templi, ma non vi sono tracce che d’uno: il tempio di Cibele, madre degli dei e nutrice dei viventi, potentissima tra le dee, che proprio nei monti ha le sue sedi; esso con ogni probabilità occupava la medesima posizione dell’attuale Santuario di Maria Santissima di Tindari. Certe devozioni non passano mai; nera come la notte, nera come la terra.
Una volta all’interno del tempio, ecco la statua in legno di cedro di fattura bizantina della Nera, libera delle sue passate ricche vesti e restituita alla sua forma d’arte originaria. Come pure il vecchio santuario interno, ella è misteriosa, enigmatica, detentrice di segreti inimmaginabili.
Oggi ricorre la festa della Madonna Nera; rivolgiamo un pensiero a Tindari che ieri come oggi è uno dei fondamentali nostri centri che mediante la sacralità della sua Signora ci porta a purificare e restaurare la nostra plurimillenaria identità siciliana.
Daniele Ferrara