Traendo spunto da “Le città invisibili” del sommo Italo Calvino, Angelo Campolo ha portato in scena l’8 agosto, alla Villa Romana di Patti, una pìece teatrale ove il luogo evocato nell’intitolazione è la sua e la nostra città, resa in questi tristissimi tempi sempre più invisibile e invivibile. Lo spettacolo, secondo nel cartellone del XVI Festival “Teatro dei due Mari”, è il primo presso il sito archeologico pattese, illuminato per l’occasione e con l’Antiquarium aperto all’uopo. Lo stesso Campolo, unitamente a Luca Fiorino, sono splendidi interpreti del testo calviniano innovato e trasposto, attraverso integrazioni che si sono ben interposte, con sapiente utilizzo di un linguaggio ora ironico, ora lieve, a quello in uno evocatore e reale dell’opera originaria.
Marco Polo, l’esploratore, e Kublai Khan, l’imperatore dei Tartari, nell’opera calviniana introducevano e chiudevano con un dialogo ognuno dei nove capitoli dedicati a 55 città con nomi di donna di derivazione classicheggiante per rappresentare l’inferno dell’umana condizione e, due modi di affrontarlo, con accettazione o cercando di riconoscere ciò che inferno non è, per dargli spazio durevole. Le città sono invisibili perché sono immagini e sogni, fatti di desideri e paure, prospettive ingannevoli, realtà che perdono i contorni divenendo fantasie. Nel testo calviniano (che è il più riuscito), pur se di difficile lettura ed esegesi, non essendo i capitoli – più che altro categorie – in logica successione consequenziale, ma quasi parte di una rete poliedrica, e ciascuno portatore di duplicità, i temi sono quelli del ricordo, del tempo, del desiderio e della morte. Certo è che l’impresa era più che temeraria, partire cioè da una prosa poetica altissima per farne un prodotto teatrale con un personale senso, e può affermarsi che pur senza grandi voli la rappresentazione ha raggiunto il degno obiettivo di non deludere gli spettatori. Intervenuti in gran numero, anche con l’uso di rimandi alla messinesità, con lievi macchiette e ad una parlata napoletana che profetizza l’immondizia destinata a sommergerci. La città di Campolo ove si muovono due personaggi volutamente dicotomici, che seguiamo nel loro persistente peregrinare – metafisico – il sognatore incalzante e l’uomo violento, ci riporta alle problematiche dell’odierno spazio-tempo, attraverso un viaggio esplorativo e di inchiesta ove le due controparti poco a poco diventano collaborative. La ricerca della donna scomparsa, ideale, nuda e irraggiungibile, è un pretesto per questo cammino ove gli opportunismi del contemporaneo, gli sprechi alla ricerca del nuovo, le chimere del progresso, le conoscenze, sola possibilità di produrre in assenza di valore del merito, lasciano al fine il posto alla considerazione, fin troppo ovvia, che l’inafferrabile sogno di perfezione non è che un fuoco fatuo nella notte.
Anche in questa trasposizione del romanzo il lettore diviene centrale, trovandosi a giocare per rintracciare le combinazioni nascoste fra le pieghe del testo. Aida De Marco al flauto e Giuseppe Mangano alla chitarra hanno splendidamente intervallato – apprezzatissimi dal pubblico – il dialogo dei due attori con brani del repertorio classico, adattati ai due strumenti, fra i quali di rilievo, ad accompagnare i momenti topici della narrazione, “La danza di Anitra” dal “Peer Gynt” di Grieg, e la “Pavane” di Faure.
Tosi Siragusa