La grande fuga, film di John Sturges del 1963, si basa su una dinamica semplicissima, quasi elementare – alcuni uomini devono scappare, altri devono impedirglielo – ma la porta avanti con una sensibilità e una cura dei dettagli straordinarie, ricordandoci ancora una volta come nella narrativa a fare la differenza non è cosa viene raccontato ma come lo si racconta.
Con questo nuovo appuntamento de “I film da (ri)vedere” ci troviamo di nuovo nella seconda Guerra Mondiale, ma se con Casablanca eravamo rimasti ai margini del conflitto, La grande fuga ci porta direttamente all’interno di un campo di prigionia.
Si tratta di un campo costruito ad hoc per riunire tutte le “mele marce”, soldati inglesi, americani e non solo che hanno già tentato più volte la fuga. Nonostante l’elevato livello di attenzione, il campo, gestito dalla Luftwaffe, più rispettosa dei diritti dei prigionieri di quanto lo siano la Gestapo e le SS, presenta condizioni dignitose: i prigionieri possono fare sport e svolgere attività culturali e ricreative di vario tipo. Del resto, il colonnello Von Luger, che dirige il campo, sa che impedire la fuga degli uomini che il caso e la Storia hanno voluto far diventare suoi nemici significa salvare loro la vita, perché in caso di nuova cattura gli ordini superiori porterebbero, stavolta, non alla prigionia ma alla pena capitale.
I protagonisti, però, non possono stare tranquilli ad aspettare la fine del conflitto; è loro dovere tentare la fuga per costringere il nemico ad impegnare molte truppe per tenerle a bada e per logorarne i mezzi in ogni modo possibile.
Tra loro troviamo Steve McQueen che, nei panni del capitano Virgil Hilts, con la sua andatura dinoccolata, il sorriso enigmatico, lo sguardo profondo e il giubbotto di pelle da aviatore, dà luogo a una delle interpretazioni che lo hanno consacrato tra i miti del cinema.
La grande fuga non è però solo la storia di Virgil Hilts, ma un’opera corale, la cui grandezza risiede nel presentare un’ampia varietà di emozioni e caratteristiche umane: c’è il coraggio, naturalmente, quello vero, che non consiste nell’assenza di paura ma nel fare ciò che si ritiene giusto nonostante i rischi; c’è l’umanità del già citato colonnello Von Luger e non solo; c’è la claustrofobia di cui soffre il tenente Velinski, interpretato da Charles Bronson, al momento di calarsi nel tunnel; c’è lo spirito di sacrificio di chi rallenta la propria andatura per sostenere il compagno in difficoltà; c’è il rapporto tra uomini con divise diverse a cui non viene facile odiarsi a vicenda.
Il titolo anticipa subito che a tentare di scappare non sarà un ristretto manipolo di uomini; il piano studiato dall’organizzazione dedita a favorire le fughe punta a consentire l’evasione di oltre duecento prigionieri tramite la realizzazione di ben tre tunnel. I lavori vengono portati avanti con un lavoro di gruppo sorprendente: c’è il reparto falegnameria per gli scavi, quello sartoria per i vestiti da civili da indossare all’esterno, ci sono i falsari per i documenti nuovi e gli addetti agli approvvigionamenti, che hanno il compito di procurare, tramite il furto con destrezza o l’inganno, gli oggetti e i viveri necessari.
La preparazione prima, e l’attuazione, poi, della fuga – di cui per ovvie ragioni non indichiamo l’esito – mantengono lo spettatore col fiato sospeso per tutte le quasi tre ore di durata del film, dimostrando come la capacità di generare suspence e trasmettere emozioni non si perda col passare del tempo.
La battuta: “Lamentarsi è un diritto di ogni soldato”, dice il tenente di squadriglia Robert Hendley, interpretato da James Garner, al tedesco Werner, che gli risponde: “Forse da voi, da noi basta aprire la bocca per rischiare di essere mandati sul fronte russo”.
La scena cult: Il salto di McQueen sul filo spinato è una delle più celebri della storia del cinema. La moto utilizzata è una Triumph 650 del ’61. Più che un anacronismo, una necessità; infatti anche per il più abile degli stuntman doveva essere quasi impossibile eseguire acrobazie con una delle pesanti moto usate dalla Wermacht negli anni ’40.
Perché vederlo: Perché tutti vorremmo una vita come Steve McQueen.
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