L’opera, liberamente tratta da “Miracolo della rosa” di Jean Genet, nasce dall’incontro, sul piano drammaturgico, tra il regista Domenico Cucinotta e Pippo Venuto, attore della Compagnia della Fortezza di Volterra. Un progetto, quest’ultimo, che dal 1988 si pone l’obiettivo di travalicare i ristretti spazi – fisici e mentali – della detenzione per approdare dall’isolamento al processo creativo, dunque all’arte.
Pippo conosce l’arte durante la sua detenzione, prima attraverso la pittura e poi grazie al teatro.
In veste di rosa è il momento in cui la storia personale dell’attore si mescola al racconto ultraterreno, seppure pregno di vita, di Genet.
Il canto della rosa è una muta bellezza. Il suo profumo può inebriare i luoghi più nascosti donandoci l’incanto dell’inatteso. Siamo liberi di non credere che nell’aria più rafferma, possa all’improvviso sorprenderci un profumo di rosa. Eppure è così.
E se ci abbandoniamo a questa possibilità, allora basta risalire all’origine del profumo, attraverso bui corridoi, porte e cancelli fino a giungere nella stanza più remota, oltre la cui porta vive un uomo recluso perché assassino, che attende la sua condanna a morte.
Seguiamo ancora il canto della rosa fino ad entrare nel corpo dell’uomo alla ricerca del suo cuore, fino a giungere nella stanza più segreta, e qui, scoprire il fiore mistico: la grande rosa dai petali giganteschi e carnosi.
Questo è il viaggio prodigioso per il quale Jean Genet ci conduce nel suo romanzo “Miracolo della Rosa”. Chiuso nella sua cella, Genet trascrive i ricordi della sua prigionia: dalla colonia penale, dove è stato rinchiuso ancora minorenne, fino alla prigione di Fontevrault nella quale sconta una pena per furto.
La crudezza quotidiana è una mistica tortura, mentre le catene, agli occhi dello scrittore, si trasformano in ghirlande di fiori. Harcamone, il condannato a morte, anch’egli rinchiuso nella prigione di Fontevrault, è il capro espiatorio che si sacrifica per tutti e la cui morte è redenzione; salvifica luce che si irradia dalla sua cella. La morte avviene nel momento in cui nere figure (un boia, un giudice, un avvocato e un prete) giungono alla fine del loro viaggio nel corpo di Harcamone e divorano la grande rosa che è il suo cuore. Nel momento della morte trasfigurata, un sorriso distante, che sovrasta ogni cosa, appare sul volto di Harcamone. Di fronte a questa immagine non rimane che un silenzio per il mistero che si svela. Il mistero del “dritto che incontra il rovescio” o della “bruttezza che è bellezza in riposo”.
“In veste di rosa” è una leggenda non del tutto inventata. Al sorger della luna, muoia l’assassino.
Vegliamo dunque, vegliamo.
A conclusione di ogni singolo spettacolo il dopofestival del Forte, un momento in cui attori e pubblico hanno la possibilità di incontrarsi, mangiare e bere insieme, condividendo la bellezza del Parco ecologico San Jachiddu.
Prossimo spettacolo 15 luglio, ore 21, “Terremoto”, regia di Saverio Tavano con Alessio Bonaffini, Gerri Cucinotta e Gianfranco Quero (Nastro di Mobius).