di Marco Olivieri
MESSINA – “Io cerco di essere uno di loro. Loro chi? Gli ultimi, i poveri, gli emarginati. Vivo in mezzo a loro e mi nutro di un rapporto che intende essere paritario”. 25 anni di professione religiosa da “frate al fianco degli ultimi”. Fra Giuseppe, che per un’ironia della sorte di cognome si chiama Maggiore, ha scelto nel 1999 di diventare frate minore. Da cappellano della stazione centrale di Messina, tiene sempre a precisare: “Sono un francescano e per me la condivisione è tutto. Il mio è un dialogo fra pari, giorno e notte, con quelli che la società considera scarti. E dai quali ho imparato tanto. I poveri sono i miei maestri”.
Ieri sera, in stazione, la celebrazione per l’anniversario. I frati minori del santuario della Madonna di Lourdes, nel quinto centenario della nascita di san Benedetto da San Fratello, hanno celebrato il 25esimo anniversario di fra Giuseppe Benedetto Maggiore, per tutti FraPè. 25 anni nell’Ordine dei frati minori. A celebrare fra Antonino Catalfamo, ministro provinciale, e c’è stata l’ostensione delle reliquie del santo nero Benedetto, detto il moro. Un santo a cui fra Giuseppe è devoto. Ma facciamo un passo indietro. E raccontiamo le radici di questa scelta francescana.
Racconta FraPè: “Io sono di San Fratello, sui Nebrodi. E a ispirarmi è stato proprio san Benedetto, figlio di schiavi africani arrivati in Sicilia nel 1500 e nato nel mio paese. La mia vocazione è nata nel segno del quarto centenario della morte di San Benedetto il moro. E nel 2024 ricorre il quinto centenario della nascita. Non è un caso che non sia diventato sacerdote, rimanendo frate. San Benedetto, da San Fratello, non era sacerdote. Non sapeva né leggere né scrivere ma era dotato di una sapienza tale che tanti teologi andavano da lui per avere consigli. Questa figura di santo africano, frate minore, mi ha sempre accompagnato e ispirato”.
Mentre ripercorre la sua vita, fra Giuseppe si trova nella cappella della stazione. Abusando di un’immagine forse inflazionata, potremmo dire che si tratta di un’oasi o un rifugio di spiritualità, ma anche accoglienza, che si contrappone ai mali e alle difficoltà del vivere. Difficoltà che trovano nella stazione tanti volti e storie che possono raccontarle. Continua il frate: “Dopo il diploma magistrale e il militare nel 1992 a Palermo, nel periodo dei Vespri siciliani, nel ’95 sono entrato tra i frati minori rinnovati e poi nei frati minori nel ’97. Ho fatto l’accoglienza a Colesano, nel Palermitano. Subito dopo Alcamo, Ispica, dove ero novizio, per poi prendere i voti nel ’99. Un impegno a vivere in castità, obbedienza e povertà”.
Qual è il più pesante da osservare fra i tre voti? “L’obbedienza. Non è solo la disponibilità a spostarsi ovunque. C’è anche l’obbedienza oblativa, quello spirito d’abnegazione che a volte è scomodo. Sono però tre aspetti concatenati: castità, povertà e obbedienza sono intrecciati ed è il cuore a ispirare tutto”.
Diventato frate, Giuseppe è stato impegnato nel Cammino di Santiago, con un’esperienza tra senza tetto, pellegrini e artisti di strada, per poi vivere per quasi tre anni in Marocco. In questo Paese, con l’aiuto di giovani musulmani, fra Giuseppe è riuscito a creare un doposcuola per bambini di strada, interagendo con le scuole marocchine e instaurando un costante dialogo. Poi una breve esperienza in Brasile tra le favelas e quindi Favara, dove ha aperto il convento ai migranti e ai senza fissa dimora, “respingendo ogni finanziamento da parte di istituzioni statali ed ecclesiali”.
Per cinque anni ha accolto più di 700 persone, mettendosi “contro coloro che speculavano sulla pelle dei migranti. La conseguenza? Ho subito diverse minacce, lettere anonime e atti intimidatori. Ma questo non mi ha impedito dal continuare a dare voce a chi non ce l’ha”, ha raccontato anche in precedenza al nostro giornale. Nel 2016, gli è stata proposta la candidatura come presidente del Consorzio per la legalità e lo sviluppo di Agrigento. Ma ha preferito rifiutare “per immergermi nel silenzio e nella solitudine, alternando preghiera e lavoro. Ho scelto di vivere un anno, a San Fratello, facendo vita eremitica, e ho rinunciato ad andare in Brasile. Vivevo in campagna da solo, prendendomi cura della mia spiritualità, e la domenica mangiavo dai miei. Ho potuto così coltivare una relazione intima con il Signore”.
“Nel 2017 sono arrivato a Messina. Ho studiato il territorio e nel 2020, grazie a un’intuizione dell’arcivescovo Accolla e del vescovo ausiliare Di Pietro, è nata la proposta di fare il cappellano della stazione centrale. Qui svolgo il mio servizio evangelico”.
Aggiunge il frate: “Ora sto rivivendo questi 25 anni e avere il saio e la costola di san Benedetto (fino a oggi, n.d.r.) in stazione, e al santuario di Loudes, è un’emozione speciale. E che coincide con la giornata mondiale del rifugiato e del migrante celebrata proprio il 29 settembre. Come interpreto il mio ruolo di frate? Seguo il carisma francescano. Francesco scrive che noi frati dobbiamo andare lungo la strada, in mezzo alla gente di poco conto ed emarginata. San Francesco sceglie i lebbrosi. Non costruisce lebbrosari. Sta con loro”.
Prosegue fra Giuseppe: “Noi frati qui, in stazione, non organizziamo mense per i poveri. Francesco viveva da povero con i poveri. Noi in stazione stiamo al fianco di chi si trova ai margini. Non gli portiamo il cibo. Ci sono altre realtà che provvedono. Ma io condivido un pezzo di strada con i poveri, con gli emarginati. Angosce, gioie e sofferenze. In linea con la Gaudium et spes, il documento conciliare, mangio il panino con loro, per fare un esempio. Ci sono persone che mi danno dei soldi, e io li devo custodire, perché hanno paura di comprarsi da bere o di acquistare il crack. Questo nasce da un rapporto di fiducia. Io cerco di essere uno di loro. Il rapporto è alla pari”.
Tiene a precisare il frate: “Non sono stati 25 anni facili. Un aspetto complicato? I frati con cui convivo me li ha mandati il Signore, me li ha donati. Non li ho scelti io. E la convivenza è sempre complicata. Allo stato attuale noi siamo in 13 al santuario della Madonna di Lourdes ma sono stato in comunità con 22-25 persone. Se non coltivi la relazione fraterna e intima con il Signore, in generale non riesci a superare le difficoltà. Questo è il segreto dei venticinque anni di professione religiosa. Un altro aspetto fondamentale consiste nella condivisione con i fratelli, all’interno e all’esterno. E qui, alla stazione di Messina, ho trovato delle persone di valore con cui collaborare”.
Mentre fra Giuseppe racconta la sua storia, lo raggiunge, nella cappella, un poliziotto in pensione. Ha il piacere di salutarlo. E poi il frate continua: “L’ambiente di Rfi, Rete ferroviaria italiana, è stato sempre accogliente. Ma tutti, dal gruppo Ferrovie dello Stato di Trenitalia a Blu Jet, hanno sempre dimostrato una grande collaborazione. Qui la polizia ferroviaria, insieme con i Servizi sociali del Comune, fa un lavoro meraviglioso. Io ho partecipato a diversi incontri dei cappellani di stazione. Ma l’esperienza alla stazione di Messina è la più bella di tutte. Qui stiamo fino alle tre o alle quattro del mattino per capire dove collocare la ragazzina che doveva andare a Napoli, dove l’aspettava una signora per motivi che nel frattempo intuiamo. Poliziotti che dimostrano di essere padri di famiglia. L’aspetto più bello dell’essere padre. Poliziotti quasi in pensione che mi hanno insegnato l’importanza di questa componente paterna. Io ho imparato tanto da loro. Non è automatico. Io non ho figli e ho imparato da loro a essere padre”.
Insiste fra Giuseppe: “Qui, in stazione, s’impara a essere padre e madre. L’assessora alle Politiche sociali Alessandra Calafiore e la dottoressa Rosaria Tornesi, assistente sociale, non hanno mai esitato a rispondere a me o alla polizia ferroviaria alle quattro del mattino. Come diceva Giovanni Paolo I, Dio è padre ma anche madre (“più ancora è madre”, n.d.r.). Una frase rivoluzionaria. Io sto imparando a essere padre e madre grazie alle persone che, inconsapevolmente, ti insegnano come servire il Signore”.
Ma c’è una categoria che fra Giuseppe non sopporta? Probabilmente quella definita da Giorgio Gaber dei “professionisti del sociale”, quando svolgono il proprio lavoro senza metterci passione e amore per gli altri. “Lo stile che noi frati abbiamo in strada, partendo dalla cappella in stazione, è profetico. Noi aiutiamo le persone così come possiamo, a volte anche pagando le bollette. A volte mangiando con loro una pizza in un locale. Al centro c’è la relazione”.
Si accalora il francescano: “Mi piange il cuore e mi sale il sangue al cervello quando vedo associazioni e organizzazioni, che dovrebbero prendersi cura dei poveri, invece sfruttarli. Gente che si fa strada sulle spalle dei poveri. Noi non siamo qui a fare carriera. Se io smetto di pregare e di relazionarmi con il Signore, divento un assistente sociale. Ed è un altro ruolo. Il mio compito è stare, da frate minore, da fatello più piccolo, con questi fratelli ai margini. Vivere la strada con loro. Ma chi ha la mansione di dover aiutare gli ultimi, meglio di come posso fare io che non ho i mezzi, è chiamato a utilizzare quei mezzi per loro. E non per utilizzarli per il proprio tornaconto”.
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