“Abbiamo corrotto qualche pubblico ministero, qualche procuratore generale, e abbiamo aggiustato qualche processo molto importante”. Era il marzo del 2016 e l’ex boss Carmelo D’Amico, deponendo al processo a carico di Enrico Fumia per l’omicidio di Antonino “Ninì” Rottino, ucciso nella faida interna ai mazzarroti, nel 2016, così cominciò le sue clamorose rivelazioni sulle “coperture” di cui godeva il clan di Barcellona.
Un capitolo oggi al vaglio degli investigatori, quello dei rapporti tra i barcellonesi, le istituzioni e la politica, in parte riversato in un primo atto visibile, l’avviso di garanzia all’ex PM di Barcellona Olindo Canali. Il magistrato è indagato per corruzione in atti giudiziari e ora sarà ascoltato dalla Procura di Reggio Calabria.
D’Amico lo ha accusato insieme ad un altro alto magistrato, dichiarando che Canali avrebbe ricevuto almeno 100 milioni di euro per “aggiustare” alcune posizioni. “La nostra organizzazione ha aggiustato diversi processi, abbiamo corrotto qualche giudizio di cui ne ho parlato, abbiamo corrotto qualche pubblico ministero, qualche procuratore generale e abbiamo aggiustato qualche processo molto importante e quindi c’era possibilità che io sarei potuto uscire dal carcere…”, ha detto D’Amico nel 2016 rispondendo in aula alle domande del PM Francesco Massara.
Il processo era quello per il triplice omicidio Geraci-Raimondo-Martino del 4 settembre 1993: alla stazione di Barcellona i tre ragazzi di Milazzo erano stati giustiziati perché “sconfinavano”a Barcellona per rubare. Autoaccusandosi del delitto, l’ex capo dell’ala militare di Cosa nostra del Longano ha raccontato di aver fatto arrivare a Canali una parte di quel denaro, quando si occupava del caso come applicato di DDA, insieme ad un altro collega.
L’aggiustamento, secondo D’Amico, si sarebbe concretizzato nella ritrattazione della moglie di una delle vittime che prima aveva detto di aver riconosciuto il boss nel gruppo di fuoco, poi ritrattò in aula. E in alcuni passaggi procedurali compiuti da Canali. Il tramite? Sarebbe stato il medico Salvatore Rugolo, genero del boss Giuseppe Gullotti, consulente del Tribunale di Barcellona, morto in un incidente stradale nel 2008: i freni della sua jeep smisero di funzionare mentre tornava da Tripi. L’altro processo per il quale ora si vaglia la posizione di Canali, alla luce delle dichiarazioni di D’Amico, riguarda l’omicidio del giornalista Beppe Alfano.
Proprio il Pm di Monza portò a compimento l’imputazione e il processo terminato con la condanna a 30 anni di Gullotti come mandante del delitto. Un verdetto diventato definitivo, ad oggi l’unico che individua un responsabile per quel delitto. Proprio la posizione di Gullotti fu poi al centro di un memoriale scritto da Canali nel quale il PM esprimeva alcune considerazioni personali, mai riversate in alcun atto giudiziario, sulla effettiva responsabilità di Gullotti. Memoriale diventato pubblico e costato un primo procedimento allo stesso Canali.
Sul delitto Alfano, D’Amico era stato ascoltato anche al processo sulla trattativa Stato-Mafia: ha raccontato di sapere chi ha ucciso il giornalista, ed aveva lanciato pesanti strali nei confronti di Angelino Alfano e Renato Schifani. Adesso i magistrati calabresi peseranno l’effettiva bontà delle dichiarazioni di D’Amico, che quel giorno del 2016, in Corte d’Assise a Messina, proseguiva così: “La nostra associazione era molto ramificata a livello politico, a livello istituzionale, era una delle più potenti che c’era in Sicilia diciamo la cosca barcellonese e anche molto sanguinaria.. Noi abbiamo fatto… siamo arrivati anche sin Cassazione a sistemare un processo.. un processo molto noto, abbiamo corrotto un giudice di Cassazione, che sono andato personalmente io insieme a Pietro Mazzagatti Nicola, e abbiamo corrotto questo giudice nativo, si Santa Lucia… le dico questo, nativo di Santa Lucia del Mela e che risiede a Roma, abbiamo… comunque per questo le dico che io ero sicuro di uscire, perché sapevo che avevamo anche l’appoggio in Cassazione di questo giudice corrotto che era in Cassazione”.
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