“Se io ora ti chiedessi perché esisto io, io e proprio io e non un altro, adesso tu cosa mi risponderesti?”
Una domanda che si ripete. È la protagonista di “I D.I.D. Uno spettacolo trashinante”. Prima nazionale, produzione del Teatro dei 3 Mestieri e Teatro Primo.
La drammaturgia di Giusi Arimatea e Domenico Loddo, con la regia di Christian Maria Parisi e la direzione di produzione di Angelo Di Mattia, racconta la storia di quattro personaggi (Tino Calabrò, Stefano Cutrupi, Silvana Luppino, Cinzia Muscolino). Ma la matematica, in questo caso, si rivelerà essere un’opinione.
Eccentrici, disturbanti e disturbati, i quattro personaggi provano per uno spettacolo. Viene pronunciato il nome di uno soltanto tra loro, è Franco Destino (Tino Calabrò), ma di lui sappiamo ben poco. A mostrare di più la propria personalità sono gli altri tre: un narcisista incallito (Stefano Cutrupi), un’eterna Peter Pan (Silvana Luppino), ed una con qualche problema di ninfomania (Cinzia Muscolino). Tra loro i personaggi si attaccano, si scherniscono, ma si conoscono bene.
Non possono smettere di provare le loro battute, vi è qualcosa o qualcuno che li controlla. Una lampada da tavolo si illumina non appena si distraggono dal loro lavoro. Ci chiediamo chi sia questo Grande Fratello, questa forte presenza assente che tutto controlla. È il loro padre, un padre che sembra dirigere tanto lo spettacolo quanto le loro vite.
Ma sarà il suo omicidio a trasformare i quattro attori in potenziali assassini. Il loro spettacolo racconta la storia di un padre che voleva uccidere il figlio, ma veniva poi pugnalato alle spalle dalla moglie. E pugnalato alle spalle, come nella storia, muore, improvvisamente, anche il loro papà.
“Lo odio, ma non l’ho ucciso” dichiarano i protagonisti.
Dalle prove dello spettacolo passiamo alla prova da trovare per la loro colpevolezza. Ed è proprio l’interrogatorio finale a stravolgere tutto ciò che credevamo.
“I D.I.D.” del titolo sembra proprio l’ammissione di colpevolezza, un “io l’ho fatto”, “sono stato io”. Ma è anche l’acronimo di Dissociative Identity Disorder, il disturbo dissociativo dell’identità (DDI o DID appunto), disturbo di personalità multipla. Un disturbo che causa la compresenza nel sistema psichico dell’individuo di almeno due personalità che prendono il controllo del suo comportamento, con una conseguente e significativa perdita della memoria.
Qui di personalità ne troviamo ancora di più. Quattro personaggi ma un’unica persona, sono 3 alter ego, le molteplici personalità, le sfaccettature dell’identità dissociata di Franco Destino.
Il padre di Franco era un mostro, la madre è fuggita da lui abbandonando il figlio, lasciando che il mostro abusasse di lui. È Franco stesso a rivelarlo durante l’interrogatorio. Bambino prima e adulto ora, è rimasto in lui soltanto questo io disgiunto alla ricerca di un’identità strappata via per sempre. La dissociazione è, infatti, un meccanismo di difesa post traumatico.
Dopo la sua confessione Franco è ritenuto colpevole, e sono proprio le sue 3 personalità, ridendo della sua disperazione, a rinchiuderlo dietro le sbarre.
“I D.I.D”, nel suo essere dissociante, è un insieme di elementi perfettamente allineati, l’interpretazione intensa e travolgente degli attori si accompagna alla voce narrante di Gianfranco Quero, al disegno luci di Guillermo Laurin Salazar, ai costumi e scenografia di Valentina Sofi.
Il suo titolo lo definisce trashinante, non mancano infatti le battute e le risate, l’ironia e il sarcasmo, il “trash”; ma “I D.I.D.” è “uno spettacolo trashinante” perché trascina lo spettatore con sè, dentro questo turbine confuso e impetuoso che è l’Io, e in cui l’Altro non si trova al di fuori ma dentro noi stessi.
È uno spettacolo che sciocca, ma non per quello che credevo. Sciocca per la sua profonda attenzione all’animo umano, nelle sue debolezze e fragilità; attenzione celata dietro il velo dell’ironia, per poi spiazzare tutti sul finale.
È follia e razionalità insieme, divertimento (per esempio, quando gli attori interpretano con grande intensità i versi di celebri canzoni, o ripetono comicamente la scena della loro uccisione) e sconcertante amarezza (la rivelazione finale). Un connubio di opposti simboleggiato, già, dall’immagine della locandina: una spada insanguinata che colpisce una banana.
È un viaggio nella psiche che, da una parte, può servire alla spettatore da seduta psicoanalitica, ma dall’altra potrebbe mandarlo in terapia subito dopo il termine dell’ultima battuta.
Ci interroga e mette in crisi. Chi è la vittima e chi il carnefice? Si può essere solo vittima o solo carnefice? Di cosa siamo davvero capaci? E se fossimo noi la nostra stessa nemesi, i più feroci nemici di noi stessi?
Una conclusione in bellezza per la rassegna estiva al MuMe del Teatro dei 3 Mestieri.